Sono completamente incapace di scegliermi libri leggeri per l’estate. Non lo so fare! Finisco sempre per ritrovarmi immersa in letture complesse e forti, però estremamente belle ed intense.
I due libri di questo wrap up mi hanno fatto riflettere davvero molto, quindi vorrei condividere con voi le mie riflessioni! Se vi va di darmi il vostro punto di vista vi aspetto nei commenti!
Una tra le funzioni della lettura che amo di più è quella di permettere alle persone di conoscere e vivere realtà altrimenti sconosciute. È sostanzialmente un modo per allenare le capacità empatiche mostrando la vita di altri esseri umani che per quanto distanti da noi sono in realtà meno diversi di quanto crediamo, ed è solo grazie alla conoscenza si possono combattere stereotipi e pregiudizi che, rinforzati dalla paura del diverso, non fanno altro che alimentare l’odio.
L’empatia non è semplicemente la capacità di mettersi nei panni dell’altro, quanto la capacità di riconoscere nell’altro lo status di essere umano, capace di sentire emozioni e sentimenti, con un proprio vissuto esperienziale che lo porta a comportarsi e a reagire in determinate maniere in determinati momenti. Senza renderlo meno umano solo perché il suo essere non è a nostra immagine e somiglianza.
I due libri di cui vi parlerò cercano di approfondire proprio questo discorso dell’empatia, in un caso mostrandoci quanto poco sia diversa da noi quella diversità di cui tutti abbiamo paura, che è solo la casualità che ci ha permesso di nascere in una zona più fortunata del mondo e questo non ci rende migliori o peggiori, semplicemente diversi; nell’altro mettendo a nudo i nostri pregiudizi, parlandoci di quella guerra tra i poveri che ci porta a creare sempre più gruppi e sottogruppi per avere anche noi qualcuno di cui sentirci migliore.
Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson
Il libro ha come voce narrante un’anziana di nome Miriam, che però, come dice il titolo stesso, non si chiama Miriam. La donna è riuscita ad uscire viva dai campi di sterminio nazisti, ma per poter vivere la vita che tranquilla che desiderava si è nascosta dietro un’altra identità, quella di Miriam appunto.
Attraverso questo personaggio di fantasia l’autrice ci mostra la realtà dell’orrore nazista non dal punto di vista ebreo, ma da quello di una ragazzina zingara. Per quanto i personaggi del libro siano fittizi gli eventi storici narrati sono reali e riscontrabili attraverso le note che l’autrice stessa mette alla fine del romanzo.
Gli zingari vengono discriminati anche da chi già viene discriminato, da coloro che, per cercare di non sentirsi l’ultima ruota del carro, anziché indirizzare il proprio odio verso quelli che hanno creato la situazione di malessere si coalizza contro chi, ancora più debole, non può fare niente per difendersi. È un po’ il Modus operandi già letto in Rosso Malpelo di Verga, il bisogno di sfogare il male ricevuto su chi, ancora più debole, non può difendersi e riuscire almeno così a sentirsi superiore di qualcun altro.
Così Malika, è colpevole di essere zingara invece che ebrea e di essere quindi, a prescindere da tutto, ladra e malintenzionata. L’unico modo che trova per riuscire a farsi una vita dopo l’incubo dei campi di concentramento è rinnegare le proprie origini, fingersi ebrea, ed essere “adottata” così da Hanna, una svedese benestante che la aiuterà a riprendere in mano la propria vita, o per lo meno quella di Miriam. Lo status di esseri umani sembra troppo elevato per una popolazione, quella Rom, che ancora viene denigrata in buona parte dell’Europa, e che si è vista abbandonata da alcune nazioni che pur si sono prese carico del salvataggio dei prigionieri dei lager nonostante anche loro fossero parte integrante del progetto di epurzione nazista, come la Svezia appunto.
È un libro pesante, non solo per il contenuto, ma anche perché costringe il lettore a mettere in gioco i propri pregiudizi, mostrando come le generalizzazioni nei confronti di una qualunque popolazione siano irrealistiche ed estremamente dannose.
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Exit West di Mohsin Hamid
Anche questa è stata una lettura difficile, pesante e carica di emozioni.
Avete mai pensato a cosa voglia dire vivere in una città che diventa piano piano zona di guerra, in cui il controllo passa lentamente ma inesorabilmente e con violenza sotto il dominio di un estremismo?
Ecco “Exit West” è quella lettura che vi porta a vivere la conquista di una città da parte dei miliziani estremisti attraverso l’esperienza di due ragazzi, Nadia e Saeed che vorrebbero iniziare a vivere la loro storia d’amore come due ragazzi qualunque, ma che nel giro di poco tempo si ritrovano impossibilitati a scriversi o a vedersi, manca continuamente la corrente, viene bloccata la connessione ad internet, il coprifuoco è sempre più stringente…
Cosa fareste voi in una situazione simile? La soluzione che sembra più semplice è la fuga, ma in realtà questa soluzione semplice non è. I visti non vengono più dati ovviamente, i mezzi di trasporto smettono di operare e le zone sotto i miliziani sono praticamente isolate.
Non saprei se Exit West rientri tra il low fantasy o low shi-fi, ha un’unica caratteristica sovrannaturale, ossia delle porte capaci di trasportarti istantaneamente in un’altra zona del mondo.Queste porte compaiono improvvisamente al posto di qualunque tipo di porta e non collegano solo le zone più povere alle zone più ricche, il luogo di destinazione è completamente casuale.
Il concetto di porta è un’estremizzazione di quello che oggi è il viaggio sul barcone o l’attraversamento di muri e filo spinato. Come oggi si cerca in ogni modo di tappare i buchi per evitare che la gente passi, anche in questa realtà si cerca di bloccare le porte per fare in modo che le persone non si spostino. Ma bloccare una porta è come bloccare un confine, una soluzione effimera e temporanea, soprattutto se a cercare di oltrepassare il limite c’è gente disperata che crede che una pallottola in testa cercando un futuro migliore sia comunque meglio di rimanere inermi in una trappola per topi.
C’è una cosa che mi è piaciuta particolarmente di questo romanzo, l’autore non infiocchetta la realtà con ulteriori bufale. I migranti non sono tutti buoni, non sono santi e non sono speciali. Sono semplicemente esseri umani, con la stessa capacità di tutti di sbagliare o essere cattivi e attuare comportamenti devianti. Ma la cattiveria non si può fermare attuando altra cattiveria. Soprattutto se ci ricordiamo sempre di un fatto estremamente importante: la cattiveria fa più rumore, ma non è la maggioranza.
Per quanto oggi ci si senta costantemente in pericolo e sotto assedio i numeri parlano chiaro: gli atti violenti sono in costante diminuzione. Eppure siamo continuamente bombardati da atti di violenza mentre le cose belle passano in sordina, sullo sfondo, surclassate anche dal gossip sul più infimo dei VIP.
Tapparsi occhi e orecchie davanti alla complessità della realtà ed etichettare degli esseri umani come “malvagi” mi sembra un modo molto semplice per liberarsi la coscienza, un modo per spostare fuori di noi il problema. Insomma, un modo piuttosto efficace per deresponsabilizzarsi, un po’ come chiamare buonista tutti coloro che si preoccupano delle persone che muoiono in mare o che vengono torturate in prigioni che vanno decisamente oltre il limite della dignità umana. Sentire notizie su persone peggiori di noi ci permette di dire “io non arriverei mai a quei livelli, quindi sono meglio” mentre sentire di persone che si mettono in gioco per salvare altre vite umane porta a dover fare difficili ragionamenti su cosa possiamo fare anche noi per migliorare il mondo in cui viviamo.
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Purtroppo quando leggo queste opere so già che difficilmente serviranno per dare un altro punto di vista alle persone che hanno già radicalizzato un determinato pensiero sulla questione. Per quanto io abbia amato entrambi questi romanzi mi sembra che queste storie difficilmente riusciranno a farsi sentire fuori dal gruppo di coloro che già pensano più all’unità della specie umana piuttosto che alle differenze delle diverse etnie. Probabilmente perché mi sembra che ci sia sempre meno interesse a scoprire le motivazioni delle fazioni opposte e che si preferisca ascoltare solo le voci che confermano i propri stereotipi e le proprie idee.
Alla fine di tutto, vorrei soltanto che questo tipo di letture riuscisse a spaccare un po’ quei muri che si stanno erigendo tra gruppi e gruppi, vorrei che fossero di quei libri che, inserendosi in mezzo ad una porta gli impediscono di chiudersi totalmente permettendo di superare la paura per venire a contatto con la diversità. Per poi scoprire che non è poi così diversa come si credeva.
Voi avete letto questi due libri? Vi sono piaciuti? Ovviamente vi aspetto nei commenti per sapere la vostra opinione sia sui libri che su tutto il discorso fatto.