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Scrivere per ritrovarsi e perdersi ancora: Quaderno proibito di Alba de Céspedes

Ho sempre pensato che scrivere fosse un atto di autoaffermazione, un modo per trovarsi e interrogarsi tra volute di inchiostro e notti insonni a testa china sulle pagine. Eppure, giunta all’ultima pagina di Quaderno proibito di Alba de Céspedes, non posso fare a meno di chiedermi se invece non sia il modo più raffinato per scegliere di perdersi completamente.

È quello che mi pare accada alla donna che scrive le pagine del diario intimo e frammentato di Quaderno proibito. Valeria è una quarantenne del secondo dopoguerra che ha dedicato tutta la sua vita agli altri – al marito, ai figli, al lavoro, ai genitori – e che ha sempre considerato il suo ruolo di cura come l’essenza stessa della sua identità. D’un tratto, con la stessa lieve sorpresa con la quale accogliamo la pioggia estiva, Valeria realizza di non aver mai fatto nulla unicamente per sé e la sua percezione del mondo e di sé stessa comincia a cambiare irrimediabilmente.

Una mattina d’autunno e un quaderno nero

L’intuizione arriva una mattina di autunno, quando acquistando qualcosa per altri a un tabacchino, Valeria vede un quaderno dalla copertina nera e decide di comprarlo per sé, mossa anche dalle parole del tabaccaio che sentenzia che acquistare quaderni di domenica è proibito. Ancora non sa come lo userà, ma il desiderio di possedere un Quaderno che sia solo suo genera un flusso di altri desideri che Valeria pensava non le appartenessero: un cassetto dove riporre il quaderno, che poi diventa desiderio di una stanza dove rifugiarsi per scrivere; delle ore di pace e silenzio da dedicare alla scrittura, da dedicare a sé stessa, ritagliate tra le mille altre faccende di casa che pesano tutte, sempre e inesorabilmente, solo su di lei; e una vita altra, staccata da quella della sua famiglia, con sogni e speranze tutte nuove.

Questi desideri che appaiono tra le pagine mettono in luce tutte le cose che nella sua vita di moglie e madre le sono da sempre precluse. Perno attorno a cui ruotano i bisogni e le esigenze della sua famiglia, Valeria per anni si è annulata al punto da non avere più neanche un nome, e in casa è diventata mammà persino per il marito. Prima del quaderno, era convinta che non le pesasse essere solo quello, una madre per i figli e il marito, una figura essenziale delle loro esistenze, guida e sostegno, fonte di cura per tutti fuorché per sé stessa.

Ma quel quaderno cambia tutto. E tra quelle pagine acquistate seguendo un impulso spaventoso e attraente al contempo, Valeria scrive per prima cosa il suo nome, reclamando il diritto non solo a scrivere, ma soprattutto a vivere in prima persona la sua storia.

Lenti nuove con cui osservare la quotidianità

Mentre i giorni scorrono fuori e dentro il diario e i momenti ritagliati per sé e la scrittura aumentano, sottraendo tempo e spazio alla casa, agli affetti, Valeria comincia suo malgrado a capire che reclamare un’identità, uno spazio per sé, un’esistenza, è spesso più complesso dell’accettare di non esistere. Più scrive e racconta i suoi giorni, infatti, più si rende conto di quante cose di sé e degli altri ha volutamente ignorato, spesso per proteggere sé stessa, e perfino i famigliari, le persone intorno alle quali ha costruito la sua identità, cominciano a mutare ai suoi occhi e ad apparire in tutte le loro contraddizioni.

A partire dalla tenace e ribelle figlia Mirella, ragazza quasi donna che ha in sé tutto il coraggio che Valeria sente di non aver mai avuto, e che per questo spesso lei invidia e disprezza. Il rapporto madre-figlia è qui strumento di autocoscienza, specchio nel quale Valeria può guardarsi per realizzare che Mirella non è altro che ciò che lei sarebbe diventata se fosse nata in un altro tempo e in un’altra condizione, e avesse avuto il suo stesso coraggio di perseguire caparbiamente le proprie convinzioni.

Le idee di Mirella e le riflessioni che provocano in Valeria gettano inevitabilmente nuova luce anche sul rapporto con il marito Michele, uomo da lei amato e rispettato ma che comincia a mostrare tutte le sue fragilità. Un tempo pieno di sogni e di speranze di successo, ora appare agli occhi di Valeria quasi ridicolo nel suo vano tentativo di diventare famoso, nella sua incapacità di accettare la propria povertà e incapacità. La figura stessa dell’uomo autoritario che provvede alla famiglia e ne decide i destini si incrina sotto il peso del ruolo duplice che Valeria svolge, di autorità in casa e di lavoratrice al pari del marito all’esterno.

Il figlio Riccardo, infine, completa il quadro di questa degenerazione maschile, acquistando sempre più nitidamente i tratti dell’uomo privo di carattere, di talenti, figlio di un dopoguerra che lo vorrebbe coraggioso ma che non gli ha dato i mezzi per farsi largo in quel nuovo mondo in divenire. In lui, Valeria ha sempre visto la persona che più a bisogno di lei, della sua forza, del suo annullamento, la ragione ultima di tutti i suoi sforzi di madre. Eppure, quando la fidanzata di Riccardo resta incinta e si prospetta il suo trasferimento nella casa del futuro marito, Valeria sente che il suo ruolo di cura sta per essere minato alla radice, e la sua intera personalità vacilla: chi è lei, se non una madre, La madre, quella che ha sacrificato tutto per gli altri e ora attende la santificazione? Ha davvero il coraggio, la voglia, di essere un’altra sapendo che qualcuna sta per prendere il suo posto e la sua gloria, quella che le hanno insegnato a rincorrere fin dall’infanzia?

La difficoltà di reclamarsi soggetti desideranti

Alla consapevolezza di Valeria si accompagna così la paura, quella che si prova quando ci si guarda allo specchio e si capisce di non bastarsi più, ma al contempo di non avere la forza – o meglio di non volerla avere – per reclamare di poter essere qualcosa di più: amanti oltre che mogli e madri, donne libere come i tempi vorrebbero, intraprendenti e spregiudicate come la stessa Mirella dimostra di essere.

E così, il Quaderno passa da rifugio a nemico e il desiderio iniziale di ritrovare sé stessa muta presto in bisogno di perdersi ancora, di dar fuoco a tutto per non dover pensare, analizzare e comprendere che quello che si è rincorso per tutta una vita non era che un inganno, che tra le mani non è rimasto niente se non le proprie convinzioni, e rinnegarle ora vorrebbe dire perdersi davvero e totalmente, per sempre .

Resta, alla fine della lettura, un senso di ineluttabile amarezza, di tristezza per la sorte di Valeria e delle donne che come lei si sono trovate a vivere un esistenza e un tempo ai margini, lacerate tra un passato decantato ma ormai stantìo e un futuro così incerto da apparire voragine che spaventa.

Come Valeria, ci ritroviamo in queste pagine e ci perdiamo, di continuo, annegando dietro interrogativi ai quali neanche le generazioni che ci separano da De Céspedes hanno ancora saputo dare risposta certa: che prezzo ha la libertà per le donne? Come conviviamo con noi stesse quando sapiamo di essere eternamente lacerate tra responsabilità e desiderio, tra aneliti di vita e rassegnazione alle necessità del quotidiano?

La risposta di Valeria non deve per forza essere la nostra, decenni di lotte e affermazioni ci separano, eppure per lei proviamo comunque un forte senso di empatia, le sue parole pregne di desiderio e di paura risuonano ancora in noi: nel nostro non sentirci mai adeguate, mai comprese e apprezzate; nel nostro muoverci ancora ai margini, spesso costrette nostro malgrado dietro l’ombra di un uomo; nel nostro doverci ancora tenere in equilibrio tra desiderio di maternità e voglia di affermazione lavorativa; e nel nostro desiderare, con la stessa tenace disperazione, di avere un momento per noi per sederci e conoscerci, anche quando fa paura, anche quando sarebbe meglio evitare di ritrovarci.

Per poi scegliere anche, questa volta con consapevolezza, di riperderci un’altra volta e forse per sempre.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.