“Ritorno a casa” è il terzo e ultimo frammento di una serie ispirata al gioco di ruolo Warhammer Fantasy, scritta da Andrea Corina (autore già noto tra le pagine di Chiacchiere d’Inchiostro). Trovate il primo frammento qui.
I palmi ruvidi e vessati dal tempo del vecchio sciamano si avvinghiavano sul bastone nodoso con spasmodica forza, quasi le proprie membra stessero già torcendo il flaccido collo di uno di quei fetidi umani, troppo deboli e pavidi per arrischiarsi a mostrare il volto oltre una celata di ferro.
Il momento però non era ancora propizio, le vecchie rune avevano condotto Karaghor passo dopo passo a quel fatidico istante e non le avrebbe disattese proprio ora, il branco sarebbe rimasto sotto il manto di pioggia che lentamente sfumava il profilo dell’oscura foresta del Drakwald contro il cielo di una notte malata.
Lunghi e profondi eran i solchi lasciati dal carro nella terra umida, tracce dell’ennesimo estenuante viaggio, l’ora era tarda e le ombre proiettate dai rami funeste; eppure, Adelbert aveva percorso quella strada così tante volte da non poter esser facile preda delle scaramantiche paure che facevan chiudere frettolosamente i chiavistelli e rimboccar le coltri fin sopra le fronti madide di sudore agli stolti abitanti dello Stirland al primo baglior di luna.
Quella sera però la vecchia foresta aveva un odore diverso ed i cavalli sembravano inquieti; profondo fu il sospiro del fattore mentre con lo schiocco dei finimenti provava ad interrompere il silenzio soffocante che portava con sé la fine coltre di rugiada e, cigolio dopo cigolio, le vecchie ruote del carro iniziarono a guaire come bestie scalciate man mano che la velocità aumentava. Rivoluzione dopo rivoluzione il legno iniziò a cedere così come le certezze del cocchiere, la luce verde e malsana della vecchia luna insudiciava le ombre dei pini e l’aria diveniva sempre più acre e permeata da odori e suoni antichi e malvagi.
Ben presto la morsa che attanagliava il cuore di Adelbert perse parte della propria presa, in lontananza le luci del villaggio rischiaravano i cupi pensieri dell’uomo il quale si scoprì a sorridere e poi ad irridere le sue sciocche paure, figlie della stanchezza e delle troppe chiacchiere che dal greto dei fiumi risalivano le bocche delle lavandaie per diffondersi come cancro in tutta la valle; poteva sentire il calore dei camini e le … grida … grida?!
Le pesanti e carnose labbra dell’augure degli antichi dei si muovevano impercettibilmente mostrando a malapena l’oscena dentatura; era rimasto nelle retrovie a preparare il necessario per il rituale, il suo vello era irto, fra le sue corna guizzavano ombre gettate dal villaggio in fiamme, per le strade imperversava la follia. Karaghor si fletté ed iniziò a tracciare con l’unghia ricurva una serie di lettere blasfeme intorno a sé, poteva sentire la terra tremare ad ogni iscrizione, il potere ancestrale che riposava sotto l’ignaro villaggio destarsi ad ogni sillaba sussurrata, il momento era giunto. Non era il calore di un desco accogliente ad attendere il fattore ma le fiamme della guerra, fra gli scheletri di case in rovina orridi mostri bipedi cacciavano le loro prede, parodie di esseri umani dal capo di capro e brandenti armi crudeli, figli dello scherzo di dei malvagi ed annoiati. Adelbert avrebbe voluto tremare, gridare ma non gli fu concesso, il destino ingrato tenne inchiodate le membra e gli occhi del fattore mentre il carnefice avanzava su zoccoli ferrati, solo un corpo in più, senza nome né importanza per gli annali della storia ma un’anima preziosa per ciò che fra le ombre da lungo era sopito, il cielo si chiuse, gli occhi dello sciamano rotearono su se stessi e sulle note di un orrido belato l’orrore tornò a camminare fra gli uomini.
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