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Ricordando il mio pellegrinaggio ad Auschwitz

Ogni anno, in occasione della Giornata della Memoria, ripenso al mio pellegrinaggio ad Auschwitz, nel lontano 2007. E come ogni anno, mi sorprendo a pensare che, se dovessi parlare di quel viaggio, non saprei proprio cosa dire. È frustrante parlare dei lager: puoi darne una descrizione precisa nei più minuti dettagli, ricordare passo per passo tutto ciò che ti è passato davanti, ripetere parola per parola le spiegazioni della guida, ma ti sembrerà di non aver detto proprio niente.

E come potrebbe essere diversamente? Che cosa si può dire di fronte a una realtà così assurda, così al di fuori da qualunque schema razionale? Proprio in questo sta la diabolicità del sistema del campo di concentramento: l’impossibilità di concepirlo a fondo, di trovare uno scampolo di normalità, di logica. Paradossale, considerando la fredda razionalità, la micidiale precisione che sta alla base del sistema del lager, tentativo di armonizzare la cieca bestialità con la logica più compiuta e spietata.

La mancanza di parole

Non c’è modo di parlarne senza cadere inevitabilmente nel vuoto della retorica e degli artifici espressivi. Mi appiglio a paragoni letterari per me rassicuranti: penso a Dante e alla sua dichiarazione di ineffabilità di fronte alle meraviglie del Paradiso. Solo che non riesco a immaginare niente di così diametralmente opposto al Paradiso come la realtà del campo di concentramento. E qui è nuovamente Dante a venirmi in soccorso, quando scrive: “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”. A tanti come a me saranno subito corsi alla mente questi versi, trovandosi di fronte al cancello d’entrata, a quel beffardo, crudele “ARBEIT MACHT FREI”, fine di ogni speranza per chi entrava.

Il campo

La scritta ARBEIT MACHT FREI è proprio una delle prime cose che ricordo. Ricordo di averla fissata a lungo, studiandola, cercando di capire cosa provavo. La risposta? Niente. Non provavo assolutamente niente. Un buco allo stomaco, una sorta di freddo torpore, nient’altro. Mi sentivo quasi in colpa per questo.

Pellegrinaggio ad Auschwitz

Lo stordimento è continuato anche una volta entrati nel campo: non c’era niente di straordinario, di così inquietante, se non il filo spinato che cingeva la zona. Costruzioni in mattoni rossi, sentieri di ghiaia, tanti alberi, tanto verde. Era quel verde in particolare a sconvolgermi, a sembrarmi fuori luogo: era così lontano dall’immagine a cui mi avevano abituato film e documentari, dove tutto oscilla tra i toni del nero, del grigio, del bianco. Era assurdo, ma il campo di Auschwitz poteva sembrare un posto sulla Terra come tanti altri.

Lo shock

Il primo colpo è arrivato quando la visita era iniziata già da un po’, di fronte alla vetrina che esponeva i capelli tagliati agli internati. Capelli, tonnellate di capelli. Davvero non si può immaginare quanti erano quei capelli. Quanti esseri umani ci vorranno per metterne insieme tanti?

E poi le valigie firmate dai proprietari, nome, cognome, data di nascita, lasciate lì oltre sessant’anni prima e ancora in attesa di essere ritirate, e una montagna di scarpe accatastate alla rinfusa in due immense vetrine. Scarpe, scarpe, scarpe. Per ogni scarpa un piede, per ogni piede una persona, un volto, una storia. Quante storie scaraventate qua dentro.

Un’ondata di tenerezza e di pietà mi ha travolto nella sala dedicata ai bambini. Quei piccoli oggetti di vita quotidiana, giocattoli, vestiti, che qualche genitore ha avuto la premura di portare con sé nell’ultimo viaggio verso l’orrore, erano disarmanti nella loro normalità, nel loro stonare così vistosamente con la follia e la bestialità che li circondava.

Nelle camere a gas, ho istintivamente alzato gli occhi verso i tubi da cui usciva lo Zyklon B. Ho immaginato di fissarli come prima di me dovevano averli fissati infinite paia di occhi, inermi, agghiacciati, inconsapevoli, e mi sono sentita in trappola. Volevo uscire da lì il prima possibile.

Ogni volto è un miracolo

Lungo le pareti di uno degli edifici del campo, non ricordo quale fosse, dove si trovasse, quando e come vi sono entrata, erano appese una dopo l’altra le foto dei volti inghiottiti per sempre dai forni. Avrei voluto osservarli tutti, uno per uno, fissarne i tratti nella memoria, notando qualche particolare, cercarne la data di nascita e la data di morte, la provenienza, immaginare la storia personale di ognuno: un tentativo inconscio, e forse stupido, di riportarli in vita, di riabilitare la dignità di uomini che sessant’anni prima questi prigioneri si erano vista negata, di porre rimedio a quello che percepivo come il più infame dei sacrilegi. Ancora una volta mi affido a chi sa esprimersi più degnamente di me: penso allo scrittore Tahar Ben Jelloun, quando scrive che ogni volto è un miracolo. Ognuno di quei volti, ognuna di quelle vite, era un miracolo, un miracolo unico che non si ripeterà mai più, e che la furia nazista ha cancellato come un errore: per ogni umiliazione, per ogni percossa, per ogni privazione, per ogni violenza, per ogni tentativo di cancellare la loro identità, un miracolo distrutto. Non riesco a immaginare niente di più mostruoso.

Pellegrinaggio ad Auschwitz

Cosa abbiamo imparato?

Quando sono uscita dal campo mi sentivo debole: avevo le gambe tremanti e le braccia intorpidite, e ho dovuto sedermi su un gradino. Le facce di chi era con me riflettevano tutte un’unica espressione, che doveva essere anche la mia. Nessuno riusciva a parlare. Solo il silenzio sembrava la risposta adeguata a quanto avevamo appena visto.

Ricordo che il mio pensiero è corso alla situazione politica dell’epoca, al razzismo strisciante che serpeggiava nella società, a chi negava che tutto questo fosse stato. Ricordo di aver pensato: “Com’è possibile continuare a sperare?”. Mai avrei immaginato che le cose, nel tempo, sarebbero perfino peggiorate. Se allora mi avessero detto che, un giorno, una sopravvissuta all’Olocausto avrebbe dovuto dotarsi di una scorta per le minacce di morte ricevute, non ci avrei creduto.

La speranza

Ricordo anche, però, che dopo un iniziale abbattimento, ho spostato lo sguardo sulle persone intorno a me, sui miei compagni di viaggio, e ho pensato che tutti loro si trovavano lì per vedere, toccare con mano, capire. E se avevamo la possibilità di farlo, era perché qualcuno aveva voluto offrirci l’occasione di andare. Lo aveva fatto per noi, lo aveva fatto per chi, tanti anni fa, da quei campi non è mai uscito, o ne è uscito segnato per il resto dell’esistenza, lo aveva fatto per chi tutt’oggi vive questa esperienza e non può dar voce alla sua disperazione. Ho sentito l’impulso di stringermi a loro in un abbraccio, di confortarli e rassicurarli. C’è ancora speranza. Siamo noi la speranza.

Quella sera, rientrati a Cracovia, siamo usciti a cenare in un ristorante italiano di dubbia autenticità e poi siamo andati a bere per pub, in giro per la città, ridendo, abbracciandoci, camminando scalzi nella piazza del mercato. Potrà sembrare irrispettoso, ma era il nostro modo di celebrare la vita, l’amicizia, la nostra nuova consapevolezza di quanto è prezioso quello che abbiamo. In quel momento, ci sembrava di poter cambiare il mondo.

E oggi?

Dopo il pellegrinaggio ad Auschwitz, i miei compagni di viaggio e io abbiamo mantenuto i contatti per qualche anno, ritrovandoci per cene e serate passate a ricordare il nostro viaggio. Eravamo sicuri che, per quello che avevamo condiviso, il nostro fosse un rapporto indissolubile.

Con il tempo, però, come spesso accade, ci siamo persi di vista. Credo però che l’esperienza al campo di concentramento di Auschwitz sia rimasta fondamentale per le persone che siamo diventati. Credo che nessuno di noi, dopo quel viaggio, potrà mai cadere nella tentazione dell’intolleranza, dell’odio del diverso o dell’indifferenza. E credo anche che se ci ritrovassimo oggi, sarebbe come se non ci fossimo mai separati.

Non smetterò mai di ringraziare chi mi ha dato la possibilità di andare., né smetterò mai di ripetere: andate, andate a visitare i campi di concentramento e di sterminio, per quanto possa fare male. Osservate, riflettete, leggete, parlate. Non siate mai indifferenti, anche se credete che non faccia alcuna differenza. Anche se il mondo sembra tornare sempre a cadere negli stessi errori, la speranza continua a vivere, perché la speranza siamo noi. Tengo sempre a mente le parole di Anne Frank:

È molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all’intima bontà dell’uomo.

Elisa
La lettura è stato il mio primo amore, le lingue straniere il secondo. Traduttrice, bibliotecaria, appassionata di letteratura per l'infanzia, classici letterari, femminismo, cucina e cinema. Credo fermamente che un adulto creativo sia un bambino sopravvissuto.