È passato più di un mese da quando ho iniziato a leggere È così che si uccide di Mirko Zilahy, e la sua lettura si è protratta per tutte queste settimane a causa dell’intensa sessione esami invernali; non è stata una lettura regolare anzi, ho potuto dedicarmi a questo romanzo solo nelle pause, qualche ora prima di andare a letto, qualche pagina appena sveglia, è il risultato è stato quello di un continuo immergersi e rimmergersi nel fosco mondo creato da Zilahy.
Devo essere sincera però, non mi dispiace troppo questo approccio, che nel mio caso è stato necessario. Se mi fossi divorata il libro in pochi giorni, come sarebbe capitato in un periodo più libero, probabilmente non avrei apprezzato così tanto lo stile dell’autore, la sua incredibile capacità di intrecciare le parole per creare una rete perfetta di trame e atmosfere.
Ma partiamo dal principio: È così che si uccide si presenta al lettore come un thriller investigativo, in cui un noto profiler italiano, Enrico Mancini, si trova suo malgrado alle prese con un serial killer spietato e violento, le cui vittime si susseguono inarrestabili. Ciò che però all’apparenza può sembrare conosciuto, quasi già visto, si rileva poi tutt’altro che tale mano a mano che la lettura prosegue. Il primo dettaglio che sfarfalla agli occhi del lettore, è che in questo romanzo non sono i fatti in sé e per sé il fulcro, bensì lo sono i personaggi che li compiono. Così, il commissario che nel genere solitamente resta il motore dell’investigazione, una figura appena delineata con il puro scopo di rivelare il folle piano dell’omicida, in questo romanzo diventa un protagonista effettivo, tridimensionale, ambiguo, disturbato, mortalmente affascinante. Enrico Mancini è tutt’altro che il commissario comune: è vittima di un recentissimo trauma, i cui effetti diventano più chiari pagina dopo pagina; la sua vita crolla pezzo per pezzo davanti ai suoi occhi, e la caccia all’assassino che lo investe minaccia di distruggere quel fragilissimo equilibrio che si è creato.
Accanto a lui, i colleghi investigatori, la pm che assiste alle indagini, i personaggi casuali che ruotano intorno al commissariato, tutti hanno in sé caratteristiche realisticamente umane, che l’autore esaspera, drammatizza per aumentare la componente disturbante del racconto.
È così che a poco a poco ci si accorge del fatto che la trama sia volutamente marginale, abbastanza sottile da lasciare ampio spazio a queste figure che la percorrono. Anche l’assassino stesso ha una personalità disturbata, ingigantita, complessa, e questa si ripercuote sulle firme che lascia, sul modo in cui vengono ritrovati i cadaveri, sul messaggio che tenta di trasmettere. Anche lui però è secondario, e lascia l’intera scena ad Enrico, all’esplorazione delle sue debolezze, della sua fragilità.
Il romanzo alla fine si presenta davanti al lettore come un’analisi intesa, dolorosa della psiche umana, degli effetti del passato sul pensiero presente, delle emozioni che travolgono i personaggi e che si ripercuotono sul loro agire futuro.
Ad esaltare questo aspetto emozionale corre in aiuto lo stile dell’autore: ricercato, curato fino ai minimi dettagli, incisivo, personale e soprattutto fortemente spinto all’emozionalità, alle sensazioni. L’alternanza di due tempi verbali, un presente per l’assassino e un passato per le indagini, crea nel lettore un effetto quasi di stordimento, di disorientamento, accentuato dall’ambiente in cui il tutto si svolge.
Roma viene dipinta quasi come un organismo vivente a più volti, sempre in aperto contrasto tra loro; da un lato l’antichità, la storia, questo fardello di monumenti, di musei, di arte che la circondano e la marchiano. Dall’altro l’innovazione, l’industrializzazione, che compete con la prima nella creazione di giganti immutati che svettano tra le case. La particolarità e che i due aspetti sono mischiati, fusi in un tutt’uno in cui grossi mostri di metallo diventano quasi opere d’arte, mentre la struttura simbolo di Roma viene paragonata ad un enorme mostro di pietra a bocca spalancata.
Il contrasto più evidente però è quello che svetta indisturbato tra le pagine; un contrasto duro, che colpisce il cuore del lettore nel profondo; l’eternità dell’arte, dell’opera in ogni sua forma, contro la fragilità dell’essere umano, la sua debolezza, il suo essere quasi effimero.
Così queste vite umane che scorrono davanti agli occhi con il loro dolore, la loro lotta, il loro agire all’apparenza devastante, in realtà soccombono sotto l’implacabile fardello del tempo, lasciandosi dietro solo edifici che richiamano ciò che sono stati.
Come potrete capire ho amato questo romanzo e la sua particolarità, quindi non posso che ringraziare la Longanesi per avermi permesso di vivere il mondo di Zilahy con tanta intensità.
Trama:
La pioggia di fine estate è implacabile e lava via ogni traccia: ecco perché stavolta la scena del crimine è un enigma indecifrabile. Una sola cosa è chiara: chiunque abbia ucciso la donna, ancora non identificata, l’ha fatto con la cura meticolosa di un chirurgo, usando i propri affilati strumenti per mettere in scena una morte. Perché la morte è uno spettacolo. Lo sa bene, Enrico Mancini. Lui non è un commissario come gli altri. Lui sa nascondere perfettamente i suoi dolori, le sue fragilità. Si è specializzato a Quantico, lui, in crimini seriali. È un duro. Se non fosse per quella inconfessabile debolezza nel posare gli occhi sui poveri corpi vittime della cieca violenza altrui. È uno spettacolo a cui non riesce a riabituarsi. E quell’odore. L’odore dell’inferno, pensa ogni volta. Così, Mancini rifiuta il caso. Rifiuta l’idea stessa che a colpire sia un killer seriale. Anche se il suo istinto, dopo un solo omicidio, ne è certo. E l’istinto di Mancini non sbaglia: è con il secondo omicidio che la città piomba nell’incubo. Messo alle strette, il commissario è costretto ad accettare l’indagine… E accettare anche l’idea che forse non riuscirà a fermare l’omicida prima che il suo disegno si compia. Prima che il killer mostri a tutti – soprattutto a lui – che è così che si uccide.
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