Se c’è una cosa che ho imparato leggendo i romanzi di Murakami, è che per gustarli pienamente è necessario ritagliarsi qualche ora al giorno in cui staccarsi dalla realtà e calarsi interamente tra le pagine; uno sguardo troppo attento alla vita di tutti i giorni non può che rovinare quel gusto di sogno sospeso che l’autore riesce ogni volta a ricreare nelle sue opere. Entrare in uno dei suoi romanzi non si può considerare una semplice esperienza letteraria, quanto piuttosto un viaggio che coinvolge tutti e cinque i sensi, un giro in una giostra di cui è difficile delineare i confini, così sfumati tra sogno e realtà visiva.
Avevo già avuto questa esperienza con Norwegian Wood e 1Q84, eppure forse è proprio con Dance Dance Dance che ho realizzato quanto coinvolgimento spirituale necessitino le sue opere: una visione troppo realistica ne sminuisce quasi il sapore, alterando il sottile equilibrio su cui ballano i suoi personaggi, e su cui potrebbe camminare anche il lettore che si lasciasse coinvolgere dalla musica che l’autore ha composto per lui.
Così, se siamo sufficientemente malleabili da lasciarci guidare, Murakami ci porta per mano in un romanzo dai contorni sfumati che non è né totalmente plausibile come un thriller saprebbere essere, ma neanche totalmente irreale come potremmo aspettarci da un romanzo schiettamente paranormale; è piuttosto un percorso di immersione ed emersione tra illusione e concretezza, lo scorrere disordinato eppure guidato di un fiume in discesa verso il suo delta.
Così è anche la vita del protagonista, un trentaquattrenne di cui conosciamo a poco a poco tutto, tranne il nome, unico dettaglio che non ci verrà mai rivelato. Attraverso i suoi occhi seguiamo il fluire di una successione di eventi all’apparenza poco correlati che sembrano trascinarsi l’uno dopo l’altro, influenzando la vita del protagonista e la sua percezione della realtà. Una realtà che sbiadisce continuamente nel sogno per lui come per noi, che facciamo fatica a distinguere tra evento accaduto e fantasia nascosta tra gli strati della sua memoria, ma che nonostante questo scorre incessantemente verso una destinazione sconosciuta ed attraente. Nel flusso ininterrotto della vita del protagonista si susseguono numerosi eventi inaspettati, come delle rocce che affiorano sulla superficie e costringono l’acqua a deviare inesorabilmente verso sentieri inesplorati e poco battuti: l’apparizione di personaggi al limite tra fantasia e realtà, la morte di alcuni di questi, il susseguirsi incessante delle stagioni che ne alterano la realtà e la percezione; nulla resta fisso e immutato nelle quasi 500 pagine di Dance Dance Dance. Eppure tutto fluisce lentamente, quasi impercettibilmente; il protagonista per primo, che vive percependo ogni giorno uguale al precedente eppure differente per un piccolo dettaglio all’apparenza marginale, eppure inesorabile nella sua fatalità.
Non è facile inquadrare questo romanzo in un unico genere, come non è semplice delinearne gli aspetti essenziali: si possono riconoscere facilmente le componenti noir e thriller, ma queste competono con temi più cari al romanzo di formazione, soprattutto per il lungo processo di cambiamento che coinvolge il protagonista. Un percorso che passa attraverso morti all’apparenza senza spiegazione, eventi dalle tinte paranormali e continui rimandi ad un mondo onirico e difficilmente comprensibile per chi vive da questa parte della realtà.
Non mancano i numerosi riferimenti alla cultura giapponese di cui l’autore è portavoce, sottili richiami ad una mentalità e a delle tradizioni che non sempre sono comprensibili ed apprezzabili per chi non le conosce a fondo.
Eppure, nonostante non ci si trovi davanti ad un romanzo semplice e lineare, la lettura scorre ininterrotta e piacevole, lenta ma mai pesante, accompagnata da uno stile quasi impalpabile, soffice e coinvolgente come i flutti che scorrono lungo il cammino in cui veniamo condotti. È una di quelle letture che una volta terminate tardano a lasciarci del tutto, ma tendono anzi a stratificarsi nella nostra memoria diventando un appoggio per future conoscenze e constatazioni. O forse riescono semplicemente a penetrare la nostra pelle ed arrivare dritte in fondo, in quel piccolo spazio profondo che ci permette di percepire la realtà ed interpretarla, offrendoci nuovi strumenti, poco convenzionali, per la costante ricerca che compiamo di un nostro personale spazio in questo vasto ed poco comprensibile mondo moderno.
Trama:
È un giorno di marzo, al Dolphin Hotel di Sapporo, A. D. 1983. Alla radio suonano gli Human League. E poi Fleetwood Mac, Abba, Bee Gees, Eagles… Uno strano mondo, dove tutto – o quasi – si può comprare. Cosi, per chi non ha voluto, o saputo, cogliere l’attimo e tuffarsi nell’ingranaggio, le strade che rimangono sono tutte un po’ tortuose. Il protagonista, un giornalista freelance costretto dalle circostanze a improvvisarsi detective, si muove tra cadaveri veri e presunti attraverso una Tokyo iperrealistica e notturna, una Sapporo resa ovattata da una nevicata perenne e la tranquillità illusoria dell’antica cittadina di Hakone. Una giovane ragazza dotata di poteri paranormali lo accompagna nella sua ricerca. Ma troviamo anche una receptionist troppo nervosa, un attore dal fascino irresistibile, un poeta con un braccio solo; e un salotto, a Honolulu, dove sei scheletri guardano la televisione. Esiste un collegamento fra tutte queste cose, un senso anche per chi ha perso l’orientamento. L’unico modo per trovarlo è non avere troppa paura, e un passo dopo l’altro continuare a danzare.