Racconti

Quello che la neve porta via

Nevica.

Non è una novità, ormai la neve cade quasi tutti i giorni. Oggi, però, lo nota più del solito. I cristalli ghiacciati le turbinano attorno, illuminati dai rari bagliori che riescono ad oltrepassare la cappa di nuvole; finiscono per morire sul tessuto logoro dell’impermeabile, o su quello sfilacciato della sciarpa che le nasconde il viso.

La neve scricchiola mentre lei continua ad arrancare, uno stivale dietro l’altro che si inabissa in quell’abbraccio gelido e lascia penetrare sottili fitte di freddo lungo le gambe. Anche a questo ormai è abituata, eppure non riesce a smettere di rabbrividire. Forse perché la sua mente è già proiettata altrove, verso la speranza rappresentata dall’esile pennacchio di fumo che s’innalza attraverso i rami.

È talmente disabituata alla speranza che ora fatica a mantenere il suo solito stoicismo. Avanza spedita cercando di rammentare a se stessa che potrebbe sbagliarsi, che il fumo potrebbe essere qualsiasi cosa. Ma la mente e il corpo hanno già deciso, non vogliono sentire ragione. Lui è lì, deve esserci: questo gridano a gran voce. Finalmente è tornato.

Dal piccolo angolo di campo visivo che la sciarpa lascia scoperto intravede le prime luci oltre la massa di alberi e cespugli; e anche se il naso è sommerso dalla stoffa, ha quasi la sensazione di sentire quell’odore, che la riporta improvvisamente indietro di dieci anni.

Per un attimo la neve scompare, scompaiono il freddo e la fatica. È di nuovo al caldo, in una stanza grande e accogliente. Una pentola bolle sul fuoco, l’odore si spande tutto intorno. È casa, in tutta la sua dolorosa e malinconica essenza.

Deve battere le palpebre più volte per allontanare quell’immagine. Sa che se si lascia trascinare indietro poi non è capace di tornare a galla. Le è già successo e allora ha avuto la fortuna di non essere sola. Ora non può permettersi lo stesso errore, quindi sotterra tutto: la speranza, i ricordi, la gioia che si sta facendo largo dentro di lei. Nasconde tutto dove non può trovarla, dove non rischia di farle del male. Continua ad avanzare, passo dopo passo, dicendo a sé stessa che lo fa solo perché deve, per sicurezza. Deve essere certa che in quei boschi non si aggiri un altro sopravvissuto. Ne va della sua vita e di quella degli altri che la aspettano al campo. Cerca di imbrogliare la sua stessa mente, ma quando scosta gli ultimi rami il calore che sente è autentico e immutato: lui è davvero tornato.

Il suo camper occupa una parte della radura, spande tutto intorno una luce rassicurante. La colonna di fumo che si leva dal tettuccio è davvero quella di un fuoco acceso all’interno. E l’odore, anche quello è reale. Profuma dolorosamente di ricordi.

Gli ultimi metri li percorre così piano che anche lo scricchiolio dei suoi passi sulla neve diventa impercettibile. Ora ha paura, molta più di quanta ne sentiva poco fa, perché la delusione di trovare il camper sarebbe stata nulla, in confronto a quella che ora proverebbe se dentro non ci fosse lui.

Arriva alla porta con il cuore che batte così forte che teme di essere udita dall’altra parte. Il camper è lo stesso, lo riconoscerebbe anche a miglia di distanza: la vernice si è scrostata ancora dall’ultima volta, ma le scritte sono le stesse. I finestrini sono oscurati, pesanti pezzi di stoffa sbiadita e logora le impediscono di vedere l’interno. Ma la luce, quella sì, filtra rassicurante dagli interstizi.

Al di là della lamiera non si sente un suono. Chiunque ci sia dall’altra parte sembra essere in attesa, proprio come lei. Ma, molto probabilmente, al contrario suo imbraccia un’arma ed è pronto ad usarla.

È quasi sul punto di tornare indietro.

Sarebbe più facile, d’altronde, e farebbe meno male. Vivrebbe con il rimorso di non averci provato, certo, ma sarebbe nulla al confronto di ciò che l’aspetta. Esita per così tanto tempo che i muscoli cominciano a congelarsi. Se resta ferma rischia seriamente di farsi del male. Deve scegliere cosa fare.

Stende il braccio e poi lo abbassa, lo stende e lo abbassa di nuovo.

Alla terza volta, la serratura scatta e la portiera si apre.

Il calore la investe, insieme alla luce. Per un secondo chiude gli occhi, un secondo che le sarebbe fatale se davanti avesse qualcuno con cattive intenzioni. Sente l’aria muoversi quando l’arma viene abbassata. «Sei tu…» Una voce roca, graffiata da anni di gelo ed esalazioni tossiche. Eppure, inconfondibile. «Sapevo che mi avresti trovato.»

Quando apre gli occhi, lui è davvero lì. Ha i capelli più lunghi dell’ultima volta che si sono visti. Gli arrivano appena oltre le spalle e sono diventati più chiari, come se tutta quella neve sporca li avesse stinti. Ha la barba incolta, riccioli quasi biondi che si intrecciano sul mento e sulle guance. Ma gli occhi sono rimasti gli stessi: azzurri come il cielo nei suoi ricordi, com’era un tempo il mare prima che la neve inghiottisse ogni colore.

«Come hai fatto a riconoscermi?» Non era quello che voleva chiedere, non erano quelle le prime parole che avrebbe voluto dire dopo tutto questo tempo. Ma sono le uniche che sono emerse dal caos che sente dentro.

Lui sorride, un sorriso così dolce da venire voglia di piangere. «Ti riconoscerei sempre. Entra.» 

Dentro è tutto come lo ricorda, come lo aveva lasciato. In un angolo, una pentola borbotta sopra uno dei fornelli. Si chiede come faccia ad alimentare ancora la fiamma, dove trovi il carburante necessario a far spostare il camper, ma non lo dice a voce alta.

Lui richiude la porta e taglia fuori il gelo. Appoggia il fucile in un angolo, si ravviva i capelli. E torna a guardarla, con la stessa intensità che le ha sempre riservato. Lei si sente quasi di troppo, lì ferma al centro della stanza, calata nei suoi abiti abbondanti e carichi d’acqua.

«Togli il giubbotto, ho appena acceso il fuoco. Lo metto ad asciugare.» Allunga la mano per prenderle l’impermeabile e lei per istinto scatta indietro. È passato così tanto tempo che non ricorda più cosa si provi ad essere trattata con gentilezza. Si è chiusa in se stessa perché solo così si sopravvive al mondo che è rimasto là fuori.

Lui sembra capire. Annuisce e si dirige verso il fornello, evitando accuratamente di passarle vicino. Eppure lo spazio è troppo piccolo, e un lembo del suo maglione le sfiora la spalla. Lei lo sente anche sotto quattro strati di vestiti fradici. Lo sentirebbe perfino attraverso il metallo.

Ma nonostante tutto resta ferma, in silenzio. Sembra che il calore si sia divorato tutte le parole, tutti i pensieri. È rimasto solo un guscio vuoto, rivestito di strati di stoffa e di sofferenza. O quasi. È proprio lì, da quella sofferenza, che nascono le parole successive. «Sei di passaggio.»

Non è proprio una domanda, non è riuscita a darle l’intonazione giusta. Ma lui la prende comunque nel modo giusto. «Circa. Resto qualche giorno.»

Non sa cosa si aspettasse esattamente, ma qualche giorno è comunque meno di quanto avrebbe desiderato. È sempre stato meno di quanto avrebbe voluto.

Un senso di perdita e di malinconia la assale, come se lui fosse già ripartito. Eppure è ancora lì, davanti a lei, che armeggia con un mestolo nella pentola fumante.

Il tepore, intanto, ha cominciato a farsi largo tra i vestiti. Sente le guance arrossarsi, le dita delle mani riprendere a muoversi nel modo corretto. Alle sue spalle, della legna brucia in un barile di metallo. Il fumo si perde oltre l’oblò nel soffitto, segnalando al mondo la loro presenza e quella del camper. «Dovresti chiudere.»

«Ah, hai ragione. Mi stavo dimenticando. Puoi pensarci tu? Ora che sei qui non serve più.»

Un minuscolo sorriso di familiarità le nasce sotto la sciarpa, appena sufficiente ad affievolire la tristezza. Il qui ed ora riassume importanza, torna a invadere la sua mente. Lascia cadere lo zaino a terra, e lo calcia in un angolo. Raccoglie la copertura di metallo e la poggia sopra il barile, poi collega il tubo che porterà il fumo verso il fondo del camper, basso a sufficienza perché non sia visibile oltre le cime degli alberi. Quando ha finito, sale sulla sedia e chiude l’oblò, eliminando anche l’ultimo accesso della neve.

Il calore ora si espande nell’abitacolo, l’impermeabile comincia ad essere di troppo. Se lo toglie mentre lui mescola la zuppa, poi toglie anche il primo maglione e la sciarpa. Il secondo lo tiene, ancora non c’è abbastanza caldo.

«È pronta. Hai fame?»

È una domanda retorica, sanno entrambi che muore di fame. Chiunque, nel nuovo mondo, muore costantemente di fame. Tranne forse lui, che è sveglio abbastanza da procurarsi sempre ciò che gli serve. Lo osserva mentre apparecchia il piccolo tavolo addossato alla parete, lanciandole qualche sguardo discreto.

Mangiano in silenzio, lui lascia che siano la bontà del cibo e il calore della stanza a coprire le distanze. E quando finalmente hanno terminato avvicina una mano al suo viso e le accarezza la guancia, con lo stesso sorriso con il quale l’ha accolta. «Sei bellissima.»

Lei ride, la prima vera risata che si concede da mesi. «Non direi proprio. Mi sei mancato.»

Ora è il suo turno di ridere, e la sua risata è il dolce che manca a quel banchetto improvvisato. «Fingerò di crederci. Ma è bello sentirtelo dire.»

Non lo contraddice, è già molto che si sia spinta ad ammetterlo davanti lui. Raggiunge la sua mano, ancora poggiata sulla guancia, e chiude gli occhi qualche istante per assaporare quel momento. Il tepore del suo corpo, l’odore di zuppa nell’aria, il calore del fuoco che ancora scoppietta nel bidone: è un momento perfetto che vorrebbe durasse in eterno. Quando riapre gli occhi trova i suoi a fissarla. Non serve che dica niente, le parole sarebbero di troppo anche in quel momento.

Si alza, scosta le ciotole e si siede sul tavolo davanti a lui. In silenzio raggiunge il suo viso e lo bacia, così piano che sembra non arrivare mai alle sue labbra, ma quando è lì è come se ci fosse sempre stata. Il secondo bacio è più veloce, più intenso, più disperato. Al terzo lui la abbraccia e al quarto lei è sulle sue coscie, stretta così forte che non sa più dove finisce lei ed inizia lui.

Cominciano a spogliarsi adagio, senza fretta. Gli toglie il maglione e lui fa lo stesso con il suo. Poi vengono via anche le camicia e la maglietta, e quando lui rimane a torso nudo lei passa le dita sulle cicatrici sul suo corpo, una rete così fitta che anche se l’ha vista infinite volte non ne ha mai memorizzato l’esatta disposizione. Una mappa di quello che è stato, di quello che è tutt’ora.

Lui la fa sedere delicatamente sul tavolo e dalla bocca scende a baciarle il collo, l’incavo delle spalle, la piega tra i seni. Lei si inarca e lui scende più giù, le sfila il doppio strato di pantaloni e continua a baciarla, così intensamente che lei sente ogni centimetro di pelle scoperta andare a fuoco. La prima volta fanno l’amore lì, sul tavolo, tra le ciotole vuote e i vestiti sparpagliati.

Il camper assorbe tutto, i gemiti di lei e il respiro roco di lui, il suono delle terracotta che si infrange sul pavimento e quello del fuoco che scoppietta nell’angolo.

La seconda volta si spostano nel letto, tra le coperte che li hanno accolti così tante volte da ricordare alla perfezione la forma dei loro corpi. E poi restano lì, per la terza e la quarta, e per tutte quelle che vengono dopo. Si alzano solo per gettare nuova legna sul fuoco e per assecondare le altre necessità del corpo. Se la coltre di nubi si alzasse, potrebbero vedere il sole sorgere e tramontare, sorgere e tramontare ancora e ancora. O forse non lo vedrebbero, troppo intenti l’uno sull’altra, troppo presi a ritrovarsi e a riscoprirsi dopo mesi di lontananza.

Alla fine sono costretti a fermarsi solo perché i corpi dolgono troppo per andare avanti. Rimangono una sera intera incastrati l’uno nell’altra, avvolti dal calore delle coperte. Sono cambiati, in questi mesi, e tanto. Chiunque in questo nuovo mondo cambia ogni giorno, in maniere inafferrabili. Ma in qualche modo, almeno qui sono sempre gli stessi. Mano nella mano, si sentono di nuovo completi per la prima volta da mesi.

«Dove andrai, ora?»

È lei la prima a infrangere il silenzio. È sempre stata quella meno capace di godersi il momento, di mettere da parte i dubbi, le domande. Quella in particolare aspettava in un angolo della sua mente, pronta a emergere appena il momento fosse passato.

Lui ha gli occhi chiusi, il volto incastrato tra il seno e il braccio di lei, la gamba sinistra coperta di tatuaggi intrecciata alla sua. È bellissimo e lei vorrebbe che rimanesse sempre così, sempre invariabilmente suo. Ma sa che anche questo non è possibile.

«A sud. Ho sentito qualcuno giù al lago dire che c’è un deposito di carburante abbandonato. Vado a controllare.» Non ha aperto gli occhi mentre parlava, ma ha continuato a disegnare dei sottili ghirigori sulla pelle della sua coscia, provocandole brividi fino alla spina dorsale. «Vieni con me, questa volta.»

È appena un sussurro, ma risuona come uno sparo al centro di una radura deserta. Lei si irrigidisce e lui fa lo stesso. Sanno entrambi cosa risponderà prima ancora che pronunci quelle parole: «Non posso.»

Per un momento nessuno dei due parla. 

Poi è di nuovo lei a muoversi per prima. Si solleva piano e lascia che la testa di lui scivoli sulle coperte. Si mette seduta e afferra le scarpe, finite da due parti diverse del camper nel bel mezzo della follia che li ha investiti. Le calza mentre lui, alle sue spalle, si alza a sua volta.

«Ti prego…» comincia, e lei lo zittisce sollevando una mano. Non lo guarda, non ne avrebbe la forza. Si alza e recupera i suoi vestiti. Li indossa uno ad uno e lui non si muove, resta seduto nel letto a guardarla. Quando infila il secondo maglione, scaccia una ciocca di capelli scuri dal viso e per un attimo incrocia il suo sguardo.

Non c’è più traccia di sorriso sul suo viso.

L’irritazione la assale. La conosce bene, quella sensazione, quasi quanto conosce la tristezza e la malinconia, quanto conosce la speranza che la colma ogni volta che individua una colonna di fumo che svetta tra gli alberi. È oscura e pericolosa, glielo ha già portato via più volte, eppure non riesce a trattenerla. Risale dallo stomaco fino alla bocca, un rigurgito di parole sbagliate che non vorrebbe dire ma che non riesce a trattenere: «È facile così. Te ne vai e mi preghi di venire con te. E se dico di no, la colpa è mia. È facile, ma io non ci sto più.»

Afferra l’impermeabile con rabbia, lo indossa in fretta e fa per afferrare il suo zaino. Lui è subito lì, intercetta la sua mano, la stringe nella sua. È ancora senza vestiti, trema per il freddo che filtra dalle finestre non sigillate. Ma continua a guardarla con la stessa, bruciante, intensità. «Non andare. Io ti…»

«No.» Lo blocca, prima che possa concludere la frase, prima che una sola parola in più possa cambiare tutto. «Il mio posto è qui. Con la mia comunità, con le persone che dipendono da me. Non posso abbandonarli.» Fa per girarsi, per lasciarsi alle spalle lui e tutto ciò che rappresenta. Ma la sua mano è ancora stretta in quella di lui, il corpo rifiuta di portarla via da lì. «Lasciami andare…» geme.

Hanno vissuto questa scena infinite volte. Cambiano i dettagli, ma il fulcro è sempre lo stesso. A volta lei se ne va schiava della rabbia, a volte preda della tristezza. Ma lui non trova mai il modo di trattenerla.

La presa sulla sua mano si allenta, anche questa volta lui sembra arrendersi alla sua decisione. Per un attimo, un altro pezzo di lei si spegne. Ma poi, del tutto inaspettata, l’altra mano la raggiunge e le sfiora la spalla, scivola sulla sua schiena e lui la stringe a sé come non ha mai fatto prima. Lei esita, trema, del tutto impreparata.

E lui, finalmente, coglie l’attimo. Cerca il suo sguardo, lo lega al suo. «Ti prego, resta. Ti amo.»

L’ha detta, quella frase che attende in sospeso tra loro da anni. L’ha detta ma lei non sente il calore che sperava di provare. È passato troppo tempo, capisce, sono diventati troppo diversi. Se lui l’avesse pronunciata prima, quando tutto è iniziato, quando erano solo due amici appena sopravvissuti all’impensabile, forse l’avrebbe davvero convinta ad andare con lui.

Ma la ragazza che era allora non esiste più. E lui non è più il ragazzo un po’ schivo del quale si è innamorata, è un uomo fatto e finito che ha già scelto quali sono le sue priorità.

E lei ha fatto lo stesso.

Per qualche secondo lo stringe a sé, come se quell’abbraccio potesse durare in eterno, come se il mondo potesse finire qui e ora, con loro stretti così forte da diventare un tutt’uno. E quando è quasi certa che cederà, che quelle parole la terranno davvero lì con lui, si stacca, afferra lo zaino e si dirige all’uscita. Lui è troppo sorpreso per fermarla. 

Spalanca la porta e il gelo cancella ogni traccia residua di calore. Dopo il tepore dei loro abbracci, l’impatto con l’esterno è come una doccia fredda in piena faccia. Tira su il cappuccio marcia nella neve, prima che lui possa dire o fare qualunque cosa per convincerla a restare. Si allontana tanto veloce quanto è stata lenta ad arrivare fino al camper. Supera la prima cinta di alberi e poi quella dopo, e non si ferma finché il camper e la luce della porta ancora aperta non sono che un lontano ricordo.

Solo allora, quando è abbastanza distante da essere certa che le gambe non la tradiranno, rallenta e il dolore arriva tutto insieme, un’onda fatta di anni di addii e di pochi, esili, momenti insieme.

 Si accascia a terra, sulla neve ghiacciata che l’avvolge come lui l’ha avvolta in quegli ultimi giorni. Le lacrime arrivano poco dopo, si cristallizzano sul viso e scavano la pelle arrossata dalla barba di lui. Trattiene a stento i singhiozzi per paura che qualcuno, in quella foresta quasi deserta, possa sentirla. Ma non riesce a evitare che poche, brucianti parole, rotolino fuori dalle sue labbra spaccate. «Anche io…» mormora. «Anche io…»

La neve, vorace, inghiotte la sua risposta.

A diverse centinaia di metri da lì, lui è ancora fermo al centro del camper, fissa la notte gelida oltre la porta. Non si è ancora rivestito, il freddo è solo un’eco che preme ai margini della sua mente confusa.

L’assenza di lei è densa come una presenza. Il suo odore è ancora tutto qui, permea il piccolo ambiente, le coperte stropicciate e i suoi vestiti ammucchiati in un angolo.

Su una sedia, una massa di stoffa azzurro spento giace abbandonata. Ci si dirige senza pensare, preda del tumulto che lei si è lasciata dietro.

È la sua sciarpa, ancora umida per la neve che ha assorbito. La porta al viso e ne respira il profumo, e le lacrime scorrono finalmente libere sulle guance ruvide.

Per un attimo la sente, come se fosse ancora lì. Come se ancora si aggrappasse alle sue braccia, in cerca di un luogo dove rifugiarsi. Ma il freddo che entra dalla porta è vorace, e in pochi secondi inghiotte ogni cosa: il tepore dei loro corpi, il profumo di lei sulle coperte e sui vestiti di lui.

Rimane solo l’odore intrappolato sulla sciarpa, un monito di quello che, ancora una volta, la neve gli ha portato via.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.

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