Come si racconta il dolore degli altri? Quanta compartecipazione, quanta intensità possiamo infondere nel racconto di una sofferenza che ci vede solo come spettatori?
A queste domande prova a dare risposta Emmanuel Carrère nel suo Vite che non sono la mia, romanzo del 2009 che muove i suoi passi dallo tsunami che colpì lo Sri Lanka e spazzò via villaggi e persone nel 2004, per provare a farsi testimone e voce della sofferenza più grande che gli esseri umani possano concepire: la perdita delle persone amate.
Molto vite, una sola sofferenza
All’apertura del romanzo, Carrère si trova in vacanza in Sri Lanka con la compagna Hélène e con i rispettivi figli. Alloggiati in un albergo per turisti sopra la scogliera, sono tra i pochi a non essere colpiti dall’onda che investe le coste e frantuma vite. Tra queste quella di Juliette, la figlia di una coppia francese che ha fatto dello Sri Lanka la sua seconda casa, un luogo felice dove trascorrere diversi mesi l’anno insieme al nonno della bambina.
Il racconto di Carrère comincia con la constatazione colma di tristezza che il rapporto tra lui ed Hélène sta giungendo al termine, soprattutto a causa dell’incapacità di lui di condividere amore e rassicurazione. Ma è proprio l’osservazione della sofferenza causata dall’onda che spinge Carrère ed Hélène a riavvicinarsi, mentre si fanno non solo testimoni ma anche parte attiva delle difficili operazioni di recupero del corpo della piccola. Il cuore della prima parte della narrazione è il dolore della giovane coppia di francesi, che si manifesta in apatia in Délphine, la madre di Juliette, e in risolutezza e quasi eccessiva esuberanza nel marito e nel padre di lei, che fanno di tutto per non lasciarla mai sola e per farsi carico delle questioni pratiche conseguenti la tragedia.
Come loro, centinaia di migliaia di altre persone vivono in quei giorni in maniere diverse il trauma della perdita, lo spaesamento, l’incapacità eppure la necessità di guardare al futuro quando il proprio presente è appena stato inghiottito dal mare. E Carrère li osserva, si fa custode e voce delle loro esistenze interrotte, cerca di darvi un senso almeno narrativo, senza nascondere il sollievo che lui ed Hélène provano per essersi salvati.
La stessa cosa accade, al rientro in Francia e nella seconda parte del romanzo, con la morte di Juliette, la sorella di Hélène, che lascia dietro di sé un marito e tre figlie piccole che devono imparare a vivere senza di lei.
Il racconto di una vita
A suggerire a Carrère che dovrebbe scrivere di Juliette è il collega e amico di lei, Étienne, giudice di istanza e persona che, come Juliette, ha avuto a che fare tutta la vita con la propria malattia. Come Juliette, infatti, anche Étienne ha avuto un cancro, che lo ha costretto all’amputazione di una gamba; come Juliette, anche Étienne ha vissuto temendo che il male tornasse a portarselo definitivamente via; ma al contrario di Juliette, lui è ancora vivo e può raccontare la vita di lei, il dolore e soprattutto la paura che lei nascondeva a tutti gli altri.
Anche Patrice, il marito di Juliette, accetta di raccontarne la storia e così i genitori di lei; Carrère ricostruisce quindi l’adolescenza di Juliette, la scoperta della malattia (che nella sua famiglia d’origine non viene mai chiamata cancro), le sedute di radioterapia, l’apparente guarigione e poi la comparsa degli effetti collaterali qualche anno dopo, che le compromettono l’uso delle gambe e la costringono alle stampelle; e poi la costruzione della carriera e della famiglia, il nido sicuro fatto di amore e calore, dentro il quale lei e Patrice crescono le tre figlie Amèlie, Clara e Diane. E le battaglie sul sovraindebitamento condotte al fianco di Étienne, che non nasconde di considerare con compiacimento sé stesso e Juliette “due ottimi giudici”. Fino alla ricomparsa del cancro, questa volta in forma di metastasi, che mette fine all’esistenza di Juliette e offre a Carrère – e forse anche a chi legge – la possibilità di rimettere in discussione la propria vita, le proprie credenze e le proprie convinzioni sulla malattia.
Un libro dai molti volti
Difficile trovare un unico senso, un’unica interpretazione a Vite che non sono la mia. Osservandolo con attenzione, si percepisce un filo conduttore – il dolore e il modo in cui gli esseri umani lo affrontano – che però costituisce solo la spina dorsale di una creatura mutevole, dai molti volti e dalle molte espressioni.
La prima parte ambientata in Sri Lanka è quasi un reportage, scritto a distanza di tre anni dagli eventi eppure capace di rievocare lo spaesamento, l’incredulità davanti ad eventi molto più grandi di noi che ci sfiorano e ci lasciano – quasi – indenni. La seconda, dedicata a Juliette, è al contempo una delicata ed empatica biografia, un resoconto giornalistico sulle battaglie giudiziare condette da lei ed Étienne e un viaggio personale dell’autore fuori e dentro sé stesso, alla ricerca di un qualche senso – se può davvero esistere – al nostro essere in vita e affrontare anche le sofferenze che essa comporta.
Dalla lettura si esce ammaccati e doloranti, svuotati di certezze ma anche pieni di nuove sensazioni, nuove constatazioni. In me, ha generato soprattutto domande – tante – su me stessa e sulle persone che intorno a me affrontano e hanno affrontato sofferenze come quelle raccontate. Molte volte mi sono chiesta come reagirei se fossi al posto di Delphine, al posto di Juliette, e tutte le volte mi sono detta – insieme Carrère – che probabilmente non potremo sapere la risposta finché non saremo noi in quella situazione e forse, se siamo fortunati, non la sapremo mai. E ho accettato, anche grazie al percorso compiuto da Carrère prima di me, che non c’è nulla di deplorevole nel tirare un sospiro di sollievo a fine lettura e pensare “per fortuna, per il momento non sono io, per fortuna, ho ancora tempo”; ho accettato che la vita che viviamo e una sola e, alla fine, l‘unica cosa che conta è sforzarci di viverla al meglio delle nostre possibilità, circondati di persone in grado di allontanare da noi la paura atavica della fine che, quella sì, prima o poi arriva per tutti.