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Non è più il tempo della cautela

Da qualche ora, sul terreno è sceso il silenzio. Sottili pennacchi di fumo si levano adagio, oscurando la terra sottostante. Un vento leggero spira da nord, ma non ci sono fronde nelle quali può impigliarsi. Corre veloce dove prima sorgeva la foresta, strappando crepitii ai tronchi anneriti e contorti, sollevando la cenere che giace a mucchi sul terreno. 

Se ci fosse qualcuno, al passaggio del vento sentirebbe l’odore acre della lignina combusta, il pizzicante sentore dell’acqua stantia. Percepirebbe il rantolo soffocato della vita che si spegne e i gemiti sommessi degli ultimi istanti di quella realtà infranta. 

Ma nessuno osa attraversare il terreno e non uno sguardo si posa sul mausoleo eretto dalle fiamme. Nel cielo, uno stormo di avvoltoi vola in cerchi sempre più stretti, puntando ai corpi rimasti indietro di chi non è riuscito a correre abbastanza veloce. 

Oltre il crinale, Ainwen li osserva in preda alla rabbia. Non riesce a vedere il terreno, sepolto dietro la roccia e i profili dei tronchi riarsi, ma sa a cosa stanno puntando quegli avvoltoi. E il pensiero le impedisce di respirare. 

«Dovresti riposare.» 

Ainwen si volta e il suo sguardo si posa sul viso di Lendyr, il dolore torna a galla: sulla pelle lignea della sorella spicca una ferita non ancora del tutto cicatrizzata. È nera, dello stesso nero ardente che ha impregnato la foresta. Le deturpa metà viso a partire della nuca, lì dove un tempo i capelli cadevano come fronde, percorsi dai boccioli. È un monito sempre vivo, indelebile, di quello che è successo. Ne porta uno anche lei, ma cerca di allontanare quel pensiero. «Non sono stanca. E poi qualcuna deve fare la guardia.» 

Ainwen riporta lo sguardo all’esterno e lo stormo è ancora lì; una delle creature si abbassa e risale, con qualcosa stretto nel becco al quale la driade non vuole pensare. 

Con un lieve gemito, Lendyr si siede accanto a lei. «Qui non possono trovarci. Siamo al sicuro.» Ma neanche lei crede a quelle parole, è tutto ancora troppo vivido: l’attacco nel cuore della notte, le urla delle sorelle che squarciano l’oscurità; le fiamme che divorano gli alberi e poi le lame, scintillanti nell’oscurità. Non c’è nulla che le parole possano fare per cancellare quello che è stato. Quindi restano così, sedute l’una accanto all’altra, a osservare gli avvoltoi finché anche l’ultimo ha terminato il pasto. Solo allora si concedono di chiudere gli occhi e di pregare per le anime delle sorelle cadute.

Appena il sole tramonta si radunano al centro della grotta. Sono cinque, deboli e spaurite. Una manciata di driadi lontane dalle loro case e dal loro Santuario. Le più anziane sono morte, quando gli alberi alle quali erano legate hanno spirato tra le fiamme. 

Loro sono le uniche sopravvissute. 

Hanno le armi, ma non le hanno mai usate. Si sono nascoste in quella grotta perché erano troppo stanche per fuggire ancora, e ora non sanno che fare. 

La più anziana di loro, appena ventenne, parla e lo fa in modo improvvisato. Si è ritrovata quel fardello addosso senza averlo mai chiesto né desiderato. È sempre stata solo Valaya, una delle tante. Non ha la stoffa del capo. «Dobbiamo prendere una decisione» intona, cercando di apparire solenne. «Dobbiamo fare qualcosa per il Santuario.» 

«Ormai è perduto» la interrompe Lendyr. «Gli uomini hanno il fuoco con loro. Non possiamo vincere. È finita.» È piccola e spaventata ma cerca di non mostrarlo. A vederla così, ad Ainwen si stringe il cuore. Non è giusto, pensa. Cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo? 

La stessa Valaya sembra incapace di ribattere. Sanno tutte che Lendyr ha ragione, non possono sconfiggere il fuoco. Mentre le osserva, quattro anime tormentate quanto lei, Ainwen realizza che non può accettare quell’atroce verità. 

Il Santuario è la loro casa, il loro rifugio. Come possono abbandonarlo senza lottare? Con uno sforzo che le toglie il fiato, Ainwen si alza e attira gli sguardi delle sorelle. Dolore, rammarico, commiserazione: sono tutti lì, negli occhi che la fissano, nei sussulti trattenuti. Piega le labbra in una smorfia severa, nascondendo un gemito di dolore. «Sorelle» esordisce, raggiungendo il centro della grotta. Quando un raggio di sole la colpisce, le altre driadi abbassano lo sguardo, imbarazzate. La battaglia non si è portata via sola la sua casa, ma anche un pezzo di lei. Ora una spazio vuoto è tutto quello che sporge dalla spalla destra, ma la sensazione è che l’arto non se ne sia mai andato. Eppure, Ainwen si sente quasi fortunata. Lei almeno può rimpiangere quella perdita. 

«Non è più il tempo della cautela» scandisce, rivolgendo lo sguardo verso ciascuna di loro, ghermendo i loro occhi e distogliendoli dalla mutilazione che si porta dentro. «Non è più il tempo della paura. Sono finiti entrambi, insieme alle sorelle che ci siamo lasciate dietro. Ora è il tempo dell’azione.» 

Lendyr fa per ribattere ma lei la ferma con un gesto della mano, l’unica che le è rimasta. «Abbiamo perso quasi tutto: la casa, la famiglia, il futuro. Ci resta un’unica cosa, ed è con quella che torneremo laggiù e combatteremo fino alla fine.» 

«Cosa? Cosa ci è rimasto?» domanda Marwe, prendendo la parola per la prima volta. La sua voce raschia come il vetro, spezzata dal fumo che ha inalato durante la fuga. È sull’orlo della rottura e solo le braccia di Kaela, la sua gemella, le impediscono di lasciarsi andare. Eppure la osserva colma di speranza. Come lei, tutte sono in attesa di una parola, un gesto, che le riporti lì dove sono nate. 

Perché non possono farne a meno. 

Ainwen le guarda una ad una, gemme della stessa radice, uguali come gocce d’acqua. E sorride, nonostante il dolore, nonostante la tristezza e la certezza che sta per condannarle tutte. Sa che non c’è altro modo. In lei sta germogliando un seme di autorità, qualcosa che non aveva mai saputo di possedere. Le proteggerà, le guiderà in battaglia un’ultima volta.

Perché quella è l’unica cosa che possono fare.

«Ci è rimasto il legame con la foresta. Un legame che solo noi possiamo ripristinare. La Madre veglia su di noi e ci aiuterà. Questo non è più il tempo della cautela, sorelle mie. Questo è il tempo della riscossa.»

La notte respira, si gonfia delle speranze delle cinque driadi. Erano spaurite, deboli e ferite. Ora non lo sono più. La debolezza è sfumata nella brezza, il dolore delle ferite è un’eco ormai dimenticata. E la paura è solo un ricordo, le parole di Ainwen l’hanno relegata lì dove non può ostacolarle. 

Anche se il verde della foresta è svanito, sostituito dal grigiore della cenere, quando arrivano al campo la natura pulsa e canta la gioia di rivederle. È una vibrazione che percepiscono sottopelle, un linguaggio che per loro è vitale ma che è incomprensibile agli umani al di là del campo. La natura è dalla loro, attutisce i loro passi, ghermisce i loro respiri nella brezza. 

Un altro punto a loro favore. 

Si muovono agili e silenziose, le lame assicurate alle caviglie, gli archi stretti in pugno e le frecce che svettano sopra le loro teste. Prima che possano accorgersene, sono già al confine con il Santuario. Gli usurpatori hanno stabilito il campo nel cuore del bosco, un altro segno dell’arroganza che guida il loro desiderio di conquista. Hanno iniziato a considerare loro la foresta, prima ancora di aver eretto una delle loro orribili città.  È l’ennesima offesa, ma le driadi non hanno tempo per covare rancore. Devono restare lucide.

Si acquattano dietro i tronchi, si fondono con il legno diventando pressoché invisibili. È questa la loro forza, ciò che gli umani non potranno mai capire: essere parte di qualcosa di più grande. 

Quando i loro respiri diventano tutt’uno con la terra che le ha generate, le driadi si accorgono di qualcosa che non avevano previsto: le loro ferite hanno iniziato a pizzicare, richiamandole verso la terra. 

Rispondendo al canto della Madre, Ainwen si inginocchia e posa il palmo sul terreno, in un gesto istintivo e primordiale. Chiude gli occhi, e la vibrazione diventa pulsazione, il battito estatico del Santuario che risuona sempre più forte, ora che loro sono tornate. 

Non lo hanno abbandonato. Lui lo sa e non le lascerà sole. 

Percependo un calore nuovo, Ainwen sorride mentre la terra freme, si solleva e risale lungo il braccio, le circonda il petto e scende giù, fino alla spalla ferita, lì dove il vuoto brucia ancora. E mentre un gemito di aspettativa le sfugge dalle labbra, la terra inizia a turbinare e si fonde alla sua pelle, ricostruendo ciò che ha perso. Quando riapre gli occhi, Arwen fatica a credere a ciò che vede: al posto del vuoto, un nuovo arto si erge contorto. Ricorda un ramo spinato, percorso da terra finissima e da bagliori color smeraldo. Pulsa come pulsa il Santuario e una sensazione di completezza la colma, mentre il cuore si sincronizza sul battito della natura. 

Guardandosi intorno, Airwen vede che le sorelle stanno osservando stupefatte la loro pelle, là dove prima svettavano le orribili ferite. Lendyr ha di nuovo la chioma folta di un tempo, ma ora anziché di boccioli è puntellata di spine. Le voci di Marwe e Kaela sono tornate, ma ora cantano un canto di morte. E Valaya ha negli occhi la furia dell’intera foresta. 

Il Santuario le sprona, le spinge a farsi avanti e a riconquistare ciò che è loro di diritto. E loro piombano sul campo addormentato, su quegli uomini che le hanno massacrate illudendosi di affermare la loro superiorità. Non lasciano loro il tempo di difendersi, non danno loro modo di recuperare le torce e appiccare il fuoco ancora una volta. Recidono le gole a una ad una, sentendo la rabbia evaporare mentre il sangue bagna le loro mani.

Quando arriva il turno dell’ultimo, Ainwen esita e l’uomo fa in tempo a spalancare gli occhi. Ma non c’è odio, in quelle pupille dilatate, né l’arroganza che la driade si sarebbe aspettata. Al loro posto c’è solo paura, macchiata di una confusione che la colpisce nel profondo. Gli uomini non pensavano che sarebbero tornate in cerca di vendetta, capisce. Erano convinti che la foresta si sarebbe arresa.

La pietà la invade, sorprendendola. Pietà per gli esseri umani che non sono mai stati in grado di capire, pietà per il loro delirio di onnipotenza. E pietà per le sorelle disperse, che percepisce intorno a lei anche se ormai non ci sono più. Taglia l’ultima gola con un singhiozzo e sulla notte cala il silenzio. Ma la vibrazione sotterranea non cessa e attira lei e le altre fino al centro del cerchio di tende sventrate, lì dove un unico germoglio è sopravvissuto al fuoco. 

È piccolo, fragile e sparuto. 

Ma porta in sé tutto il senso della loro riscossa.

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Questo racconto è stato pubblicato la prima volta nel 2020 tra le pagine della Rivista Turno Zero, che oggi purtroppo non esiste più. Lo ripropongo oggi perché, a distanza di diversi anni, penso sia un peccato che l’oblio della rete cali sopra questa storia. Ma anche, e soprattutto, perché questo racconto è stato il seme da cui è germogliato il romanzo Amore a prima riga, che ora sta prendendo vita su Wattpad. Un incontro di idee e ispirazioni che merita dunque di essere preservato.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.