Questo breve saggio è frutto di un laboratorio di divulgazione della letteratura in rete tenuto dalla dott.ssa Giorgia Ghersi nell’ambito del corso magistrale di Informatica Umanistica dell’Università di Pisa. A partire da tre saggi di altrettante studiose e accademiche, ogni partecipante del corso ha sviluppato una propria analisi della poetica di Anna Maria Ortese: questa di seguito è la mia.

Fin dai primi scritti, la poetica di Anna Maria Ortese si muove sulla linea di confine tra realtà e finzione, con l’intento di mettere in luce il carattere illusorio e ambivalente dell’esistenza. Questo intento è ben visibile nella “trilogia autobiografica”, composta da Poveri e semplici (1967), Il porto di Toledo (1975) e Il cappello piumato (1979).
Ne Il dettato dell’ombra. La scrittura autobiografica di Anna Maria Ortese Beatrice Manetti rileva, ad esempio, le ragioni dietro la scelta dell’autrice di avvolgere il racconto autobiografico di sfumature oniriche e fantastiche. Calandosi dentro vite immaginarie simili alla sua e indossando delle maschere di sé cucite su misura, Ortese crea una porta d’accesso alternativa ai ricordi: raccontarsi diventa così farsi raccontare da vite e voci inventate che, proprio grazie al loro carattere fantastico, permettono di scorgere dettagli che la realtà normalmente nasconderebbe.
Questo meccanismo è all’opera anche ne Il mare non bagna Napoli, libro che scatenò forti critiche proprio a causa del suo carattere ambiguo, a metà tra reportage e finzione, che impediva di distinguere con chiarezza le impressioni personali e negative dell’autrice dalle critiche sociali mosse alla città. Silvia Contarini lo racconta nel suo saggio Tra cecità e visione. Come leggere Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese: la presa di distanza dalla narrazione e l’alterazione dei sensi messe in atto da Ortese negli scritti della raccolta sono necessarie per accedere a una verità che può diventare visibile solo sfocando lo sguardo, distaccandosi dal reale attraverso le lenti dell’immaginazione.

Un paio di occhiali, racconto che apre la raccolta, è metafora perfetta della ricerca di uno sguardo altro capace di “trasformare in visione l’infinita cecità del vivere”. Quando prova gli occhiali per la prima volta dall’oculista, infatti, la piccola Eugenia è convinta di avere finalmente accesso a un mondo fatto di colori e forme meravigliose, dal quale la miopia l’ha tenuta lontana; nel momento in cui indossa gli occhiali nel cortile dove vive, però, quella che le si presenta davanti è solo la brutale realtà: uno scenario caotico, sporco e popolato da vite contorte e sofferenti, troppo denso di brutture per essere compreso e accettato.
Ma, come spiega Cristina Savettieri in Narrare contro il reale. Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese, è in mezzo al racconto, invece, che Eugenia vive il vero momento di rivelazione: in piedi sul balcone, mentre guarda le strade trafficate dall’alto, la miopia le permette di giungere a un’interpretazione della realtà più complessa e profonda di quella a cui gli occhiali danno accesso: una realtà in cui le persone sono ombre piccolissime e sfocate, inglobate dal caos e dalla confusione della vita, e Napoli null’altro che “una città che formicola di oro e di insetti”.
L’alterazione, la finzione e il racconto di sé attraverso il racconto di altre vite sono dunque per Ortese la chiave di lettura di una realtà che si sottrae ai tentativi di metterla a fuoco, di analizzarla. La realtà stessa, in fondo, per l’autrice non è che illusione ed è solo attraverso l’illusione suprema – la letteratura – che si riesce ad afferrarne almeno qualche brandello di significato.