Il negozio sorgeva tra due grandi marchi. Da un lato enormi insegne fucsia, paillettes luccicanti e velluto nero, la moda a buon mercato e di cattivo gusto. Dall’altro, foto di panini grondanti di salse e grasso, apologia del fast-food all’americana.
Difficile scorgere quella piccola porta a vetri bianca, sgangherata e priva di insegna, in mezzo al vociare dei suoi vicini. Eppure, Erme in qualche modo la vide. Si bloccò incuriosito sul marciapiede, dando uno strattone alla mamma che continuava a camminare.
Io e lei ci fermammo, perplesse, e lo osservammo alzare il piccolo indice e indicare la porta.
«Entriamo lì?»
Mamma mi guardò un secondo, poi abbassò la testa verso di lui. «Non possiamo entrare lì, tesoro. È casa di qualcuno.»
Erme scosse il capo, facendo ondeggiare i bei ricci neri. «No, è un negozio. Guarda.»
Indicò di nuovo la porta e osservandola con maggiore attenzione notai che sopra lo stipite era incisa una scritta. «Ha ragione» dissi. «”Le curiosità di Idia”. Che nome buffo.»
Mamma alzò le spalle. «Buffo, sì. In ogni caso siamo di fretta. Papà ci aspetta.» Nella sua voce c’era ansia, la stessa che l’accompagnava da quando eravamo arrivati in città. Mamma era sempre in ansia, davanti ai cambiamenti.
Io guardavo ancora la porta, dal vetro opaco cominciavo a intuire delle forme: scaffali colmi di oggetti, una luce calda che ne avvolgeva i contorni.
«Brigid?»
Quando distolsi lo sguardo, la porta tornò a nascondere il contenuto del negozio ma la mia mente rimase sospesa lì, in mezzo a quei misteriosi scaffali. «Un minuto in più, uno in meno, non cambia molto» dissi, rivolta a mia madre. E per suonare più convincente, aggiunsi: «Dato che vivrò qui, perché non scoprire subito cosa riserva il quartiere?»
Non sapevo nemmeno io perché desiderassi tanto fermarmi, ma dovetti scegliere le parole giuste. Mamma esitò, guardò me ed Erme e poi si rassegnò. «Va bene. Ma solo qualche minuto. Non vorremmo lasciare a vostro padre tutto il lavoro faticoso.»
Erme fece un enorme sorriso e strattonò il braccio di mamma verso la porta. Lo seguimmo e fu lui ad abbassare la maniglia, che era proprio alla sua ridotta e adorabile altezza, e a guidarci dentro. La porta fece tintinnare un campanello. Alzai lo sguardo, un acchiappasogni di metallo dondolava appeso al muro. Il negozio era caldo e profumava di un bouquet saturo e speziato. Come avevo intuito dall’esterno, era percorso da scaffali colmi di oggetti che correvano per tutta la ridotta lunghezza e si fermavano davanti a un bancone in legno, e a un’altra porta che probabilmente dava sul magazzino.
Dietro il balcone, una donna dai folti capelli ricci e con un paio di grossi occhiali ci sorrise: «Benvenute alle Curiosità di Idia.» Il suo sguardo corse da me a mamma e infine a Erme, il suo sorriso si aprì. «E benvenuto anche a te, giovane esploratore.»
Mi chiesi se la donna ci avesse visti al di là della porta, se avesse notato la nostra esitazione e la tenacia del mio fratellino.
«Mamma, guarda che bel gatto!» esclamò lui, indicando un gattone dal folto pelo bianco acciambellato su uno sgabello. Si sganciò dalla presa di mamma per raggiungere il micio.
«Erme, non disturbare…» cominciò mamma, ma la proprietaria del negozio la interruppe subito: «Non si preoccupi, apprezza molto i bambini.»
Mamma si arrese ed Erme raggiunse il micione, che appena lo vide si stiracchiò sul suo cuscino e si lasciò accarezzare con un sordo brontolio di soddisfazione.
«Guardate pure senza fretta, e se vi serve qualcosa sono qui» ci disse la negoziante, tornando ad armeggiare con una pila di fogli sulla scrivania. Io la osservai incuriosita: portava un grosso pendente a forma di rosa posato sul petto e una leggerissima tunica verde le avvolgeva la figura, nonostante fuori la temperatura sfiorasse lo zero. Dentro il negozio, però, c’era un bel calore e mi venne spontaneo sciogliere la sciarpa e aprire il cappotto.
Lasciai vagare lo sguardo tra gli scaffali, cercando di capire cosa esattamente vendesse la signora Idia. Non era facile decidere, gli scaffali erano saturi delle più variegate chincaglierie: candele colorate e dal profumo intenso, portagioie in legno decorati, collane di ogni forma e dimensione, bracciali e anelli altrettanto variegati. Ad accomunare quegli oggetti erano solo la loro stranezza e la loro assoluta incongruenza: alcuni sembravano recenti, altri arrivati direttamente dagli scavi nelle antiche case greche o romane. C’erano persino piatti e bicchieri che ricordavano reperti egizi, riproduzioni così accurate che mi sembrava di rivedere una delle collezioni del museo dove avevo fatto il tirocinio. Sfiorai uno di quei piatti, ed ebbi la vivida sensazione di essere lì, nella maestosa dimora di un faraone, seduta a una tavola imbandita e circondata da schiavi e dignitari stranieri.
«Siete nuove in città?»
La voce di Idia mi riportò bruscamente al negozio, la visione della dimora del faraone si infranse.
Fu mia madre a rispondere: «Brigid si è appena trasferita qui. Tra qualche giorno comincia il dottorato.»
Vidi gli occhi di Idia illuminarsi. «Oh, Brigid. La dea della conoscenza celtica. Un bellissimo nome.» Spostò lo sguardo da me a mio fratello, il suo sorriso si allargò ancora. «E tu sei Erme, ma certo. Da Hermes, il dio greco che protegge i viaggiatori.»
Vidi mia madre esitare. Le avevo chiesto molte volte da dove venissero i nostri nomi, ma non mi aveva mai saputo dare una risposta soddisfacente. Anche ora, il suo viso si tirò in un sorriso di pura formalità: «Eh già… ho sempre amato i nomi particolari.»
Idia annuì, tornò a guardare me. «Posso chiederti cosa studi, cara?»
«Beni culturali. Ho vinto un dottorato al dipartimento di storia antica.»
«Capisco.» Quell’unica parola parve carica di significato. «Vi lascio alla vostra esplorazione.»
Idia tornò alle sue carte, mamma mi guardò e scrollò le spalle. “Andiamo?” mimò con le labbra.
“Qualche altro minuto” risposi alla stessa maniera. Non avevo alcuna voglia di tornare fuori, al freddo del marciapiede e al caos della mia nuova casa, non ora che ero dentro quel negozio carico di fascino e mistero.
Mamma sospirò e riprese a guardare gli scaffali. La vidi osservare con sguardo malinconico pennelli e tavolozze. Un tempo era stata una pittrice e dava vita a ritratti che parevano vivi, ne avevo visto qualcuno appeso alle pareti della casa dei nonni. Da quando ero nata io, però, aveva smesso e non mi aveva mai detto il perché. Un altro degli innumerevoli misteri della nostra vita.
Scorsi Idia guardare Erme e il gattone, i due sembravano aver legato e ora il micio si contorceva lieto sotto le carezze del mio adorabile fratellino. Mi sarebbe mancato, terribilmente, forse perfino più di mamma e papà.
Mi avvicinai alla mamma, che era passata a guardare dei taccuini rilegati in pelle.
«Prendiamo qualcosa?» mi sussurrò. «Mi pare brutto andarcene a mani vuote.»
«Anche a me. Cosa vuoi prendere?»
Lei indicò i taccuini. «Ti piacciono? Possono esserti utili per i tuoi studi.»
Le sorrisi e mi strinsi un po’ alla sua spalla. «Molto» dissi, sentendo una punta di malinconia. Parecchi chilometri separavano la nostra città da quella che stava diventando la mia nuova casa. Un nuovo inizio, pieno di promesse ma anche di incertezze.
Mamma scelse un taccuino color vinaccia e lo portò al bancone. «Prendiamo questo» disse, poggiandolo sul ripiano.
Idia ci guardò, allegra. «Ottima scelta. Datemi un attimo, vi faccio un pacchetto.»
«Non serve…» provò mamma, ma lei era già sparita dietro la porta sul retro con il taccuino in mano.
Accarezzai la spalla di mamma, poi sorrisi ad Erme che coccolava il suo nuovo amico. «Posso avere un gatto?» disse, facendoci ridacchiare entrambe.
«Magari in futuro» rispose mamma.
Idia tornò poco dopo, con una bella scatolina dipinta tra la mani. Sul coperchio correvano decori di foglie e fiori. La posò sul bancone.
«È davvero bella, grazie» disse mamma.
«Si figuri. Per me è un piacere rendere felici le mie clienti.»
Guardai Idia e poi di nuovo la scatola, ed ebbi la certezza che dentro ci fosse qualcos’altro, oltre il nostro taccuino. Non saprei dire come, ma lo sentivo, come avevo sentito che dietro la porta opaca c’era un mondo, misterioso e affascinante. Mi capitava spesso, di intuire cose senza capirle del tutto.
Pensai a un errore, spostai lo sguardo verso Idia per dirglielo e vidi che mi guardava con un largo sorriso. «La conoscenza è un’alleata preziosa, mia cara. Usala sempre con giudizio.»
Mi fece l’occhiolino, poi batté rapida il conto nella cassa e confermò il prezzo del taccuino.
Mamma pagò, prese la scatola e mi fece cenno di andare. «Grazie di tutto» disse alla negoziante. Prese Erme per mano per convincerlo a lasciare il gatto e poi si fermò a metà del corridoio.
«Tesoro, andiamo?» mi disse.
Io ero ancora ferma accanto al bancone, guardai un’ultima volta Idia. «Grazie» dissi, non sapendo bene per cosa la ringraziassi.
Lei parve capire comunque. «Allora ti aspetto presto» disse, abbastanza piano perché solo io la sentissi.
Confusa, seguii mamma fuori dal negozio. Lei mi porse la scatola e capii subito dal peso che la mia intuizione era giusta. La aprii e dentro trovai due incarti. Spostai di lato quello che conteneva il taccuino e guardai l’altro, era di forma ovale e aveva una scritta sopra.
«Cos’è?» chiese mamma, e io scrollai le spalle.
«Non saprei…» dissi, ma quando lessi il nome sussultai. «È per te.»
Mia madre corrugò la fronte, io le porsi l’involucro.
«Aprilo» dissi.
Mamma lo scartò in piedi in mezzo al marciapiede, io ed Erme sporti verso di lei per vedere cosa contenesse. Tirò fuori una scatolina di legno scuro, al suo interno due pennelli e un piattino di metallo cavo per l’acqua o per l’inchiostro.
«Ma come…» mormorò mamma. Mi guardò, confusa. «Sei stata tu?»
Io scossi il capo, la sua stessa confusione riecheggiava in me, insieme alle ultime parole di Idia: “La conoscenza è un’alleata preziosa, mia cara. Usala sempre con giudizio”.
D’un tratto ebbi un’illuminazione. Avevo già sentito il nome Idia, nella mitologia greca: la ninfa figlia di Oceano e Teti, conosciuta come “la sapiente”, la protettrice della conoscenza.
Ripensai alle sue parole nel negozio: il mio nome, nella mitologia celtica, aveva quasi lo stesso significato. Guardai mio fratello: come aveva detto Idia, Erme era il dio protettore dei viaggi.
E se fosse stato destino che entrassimo proprio là, nel negozio di Idia?
Ero appena arrivata in una nuova città e già avevo trovato un posto dove sarei voluta tornare. Guardai mia madre, così in ansia e fragile ora che dovevamo salutarci. Aveva smesso di dipingere quando ero nata. Forse anche questo non era un caso.
«Hai mai pensato di ricominciare?» le chiesi, indicando i pennelli.
Lei ricambiò il mio sguardo, un bagliore di desiderio attraversò i suoi occhi. «Forse dovrei» disse, e sorrise.
Leggere questa storia in mezzo a tutte le “storie” dei social che “vociano” per ottenere attenzione è stato come entrare dentro la bottega di Idia: un isolotto di tranquillità e curiosità che nasconde una storia che sembra uscita dal mondo di American Gods.
Nella mia fantasia Idia non sarà più lì ad un secondo passaggio, per quanto lo voglia Brigid. Il suo scopo è stato raggiunto. Essere in attesa di clienti abitudinari non rientra nel dominio dei suoi doni. Viaggia, fluisce, compare e scompare come le maree, da degna figlia di suo padre.
Arriverà in un minuscolo negozio di Shibuya, quando un salaryman depresso si ricorderà di quando da bambino sognava di progettare areoplani.
Sarà a Mumbai, quando una bambina smarrita in cerca di storie si farà guidare dal profumo di spezie verso una nuova bottega mai vista prima.
Aspetterà a Parigi, quando una giovane scrittrice arriverà distrattamente nella sua bottega, domandandosi come combinare parole e matematica per creare nuove storie…
Che meraviglia svegliarsi e trovare questo commento. Grazie di aver colto così bene l’essenza del racconto.