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Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson

Esiste già una recensione di questo romanzo sul blog, scritta da Vale qualche anno fa. Eppure, trovo sia impossibile terminarlo e non rifugiarmi tra queste pagine digitali, per provare a mettere ordine a pensieri confusi, ancora carichi di tensione e di agitazione.

Abbiamo sempre vissuto nel castello è un libro che difficilmente lascia indifferenti. Pur nella sua brevità, si scava un passaggio dentro la nostra consapevolezza, andando a punzecchiare parti inconsce di noi per tirarne fuori cascate disordinate di emozioni. Credo che questo effetto sia ancor maggiore in chi vive o ha vissuto parti della vita capaci di risuonare con quelle di Constance e Mary Kathrine: in chi è cresciuta inquadrata in un ruolo di femminilità, in continua lotta – non sempre consapevole – tra accettazione e sovversione dei confini imposti dalla società patriarcale.

Che il romanzo sia infatti un attacco aperto al patriarcato è una cosa su cui si possono avere pocchi dubbi. La metafora dipinta con abilità da Jackson – che sfrutta abilmente topoi del genere gotico come il castello, le fanciulle perseguitate, il fuoco e le rovine – cela al suo interno una riflessione complessa e profonda sulle dinamiche di vita delle donne. Soprattutto, delle giovani casalinghe americane degli anni ’50 e ’60, sorelle temporali dell’autrice e con tutta probabilità dirette destinatarie dell’opera.

Dentro Abbiamo sempre vissuto nel castello si avvertono l’ansia, la disperazione e soprattutto la rabbia di chi non può sfuggire a un ruolo precostruito. O che, almeno, non può farlo se non distruggendo tutto e accettando di rifugiarsi tra le macerie.

Ma andiamo per ordine, o almeno proviamo.

La storia

Abbiamo sempre vissuto nel castello è la storia di due sorelle. Constance e Mary Katherine, detta Merricat, vivono nella vecchia tenuta di famiglia, una dimora aristocratica che tutti nel paese guardano con timore e con odio. Ad accentuare i sentimenti negativi verso le sorelle Blackwood è il fatto che, sei anni prima dei fatti raccontati, quasi tutti i membri della famiglia sono stati uccisi, ad eccezione delle due protagoniste e dello zio Julian, rimasto menomato fisicamente e mentalmente dal veleno che ha ucciso gli altri. Anche se è stata scagionata durante il processo, Constance è ritenuta ancora da tutti colpevole dell’omicidio, e anche per questo non scende mai al villaggio. Al suo posto va Merricat, che due volte a settimana raccoglie gli insulti e l’astio dei compaesani. A parte le necessarie sortite per la spesa, i tre Blackwood vivono completamente isolati dal mondo. Almeno finché sulla scena non compare Charles Blackwood, un cugino venuto a usurpare il posto maschile rimasto vacante, e tutto l’equilibrio creato da Connie e Merricat va in frantumi.

Una narratrice attraente ma inaffidabile

Il racconto ci è narrato dalla voce di Merricat, diciottenne cresciutà nell’isolamento come una piccola selvaggia, e la parzialità e l’inaffidabilità di questa narrazione ci colgono di sorpresa fin dalle prime pagine. Il primo segno della “stranezza” della narratrice è la sua ferrea convinzione dell’esistenza della magia. O meglio, della stregoneria, un potere oscuro che Merricat non si trattiene dall’immaginare capace di uccidere chiunque cerchi di perturbare la pace che lei e Connie si sono costruite. Nel mondo di Merricat, catene inchiodate agli alberi e monete sepolte nel fango hanno il potere di tenere lontani gli intrusi. E la sua convinzione, quasi infantile, è a tal punto affascinante che non possiamo che credere con lei in un soprannaturale di ignoranza la cui realtà non ci viene mai del tutto chiarita.

A fare da controaltare alla stregoneria di Merricat c’è la volontà di dominio di Charles, uomo che nella dimora di Blackwood cerca di imporsi, di domare l’indomabile, di piegare le sorelle e il vecchio zio al suo volere. È Charles a contrastare con fervore gli incantamenti infantili della narratrice, così che non sappiamo mai se non funzionano perché irreali o perché ostacolati da un potere ancora più forte – all’apparenza – di quello femminile: il potere di chi domina e comanda, il potere degli uomini.

Constance e lo zio Julian, figure ai margini eppure essenziali per l’equilibrio del racconto, rappresentano la quiete domestica, la rassegnazione di chi ha accettato il suo ruolo di sottomissione. Invalido e quasi senza memoria lui, calma e angelicata lei, assistono alla lotta tra Merricat e Charles senza mai alterarne gli equilibri, come una madre e un parente consapevoli di non avere potere, e di non poter dunque mai dire la propria a favore di una o dell’altra parte.

Starà a Merricat smuovere le acque, generare la tempesta che romperà tutti gli equilibri. Per poi trascinare chi rimane nella ricostruzione di una nuova pace, che porta però tutti i segni dei traumi passati.

Una brillante metafora della condizione femminile

Abbiamo sempre vissuto nel castello è una grande metafora. Una metafora della realtà costrittiva e spaventosa della vita domestica delle donne, e dell’oscurità che il loro inconscio è costretto ad accogliere come forma estrema di liberazione. In questo senso, Connie e Merricat sono facce della stessa medaglia: sottomissione l’una e ribellione l’altra, in un equilibro iniziale apparente nel quale la prima domina e la seconda si lascia dominare. Alla prima perturbazione, però, ecco che il lato ribelle sopravanza, brucia e distrugge, per poi rifugiarsi nuovamente nella cura del primo quando la situazione torna quieta.

In perenne simbiosi, le due sorelle sono declinazioni opposte della medesima femminilità costretta e soffocata, sfumature dello stesso inconscio che hanno un bisogno costante l’una dell’altra per poter sopravvivere. Impossibile non ritrovarsi almeno in parte in questa metafora, e non rammentarsi tutte le volte in cui abbiamo sentito rieccheggiare la nostra Merricat interiore davanti ai soprusi e alle ingiustizie che ci sono state rivolte, tenuta a bada e ammansita dalla gentilezza di una Connie che perdeva sempre più terreno man mano che le ingiustizie si facevano più marcate.

Peccato non padroneggiare la sua stregoneria! Ci sarebbe stata utile per ritagliarci prima uno spazio di quiete e di volontario rifiuto della cattiveria del mondo.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.