Un buon buon libro horror deve essere capace di scombussolare il lettore. Non dovrebbe solo mettere paura durante la lettura, ma anche rendere incapaci di liberarsi dallo stato d’angoscia una volta chiuso il libro. Ed ecco perché, una volta concluso Abbiamo sempre vissuto nel castello, mi sono trovata incerta tra l’amore e l’odio nei confronti di questa lettura.
Come si può amare un libro che ti lascia un macigno sul cuore?
È il primo libro di Shirley Jackson che leggo, ma credo che durante l’anno amplierò notevolmente la mia conoscenza di questa autrice. È stata capace di portarmi in un mondo folle e crudele, un mondo fin troppo simile alla realtà.
Ed io amo i libri capaci di farmi perdere la cognizione del tempo (e anche un po’ di sanità mentale). Amo i libri che parlano di mostri, soprattutto quando travestiti da persone qualunque.
Trama:
Mary Katherine Blackwood vive in una grande casa ai confini di una piccola cittadina, insieme a sua sorella Constance e allo zio Julian. Il resto dei membri della sua famiglia sono tutti morti, avvelenati, durante una cena di famiglia.
La vita dei tre nella grande casa è una vita di solitudine e ferree routine, hanno deciso di allontanarsi dal mondo che crede Constance l’artefice della strage. Solo Mary Katherine (Marricat) esce due volte alla settimana per andare in paese per comprare il cibo e prendere i libri della biblioteca.
Ma la quiete non può durare per sempre e prima o poi gli incantesimi che rendono la casa inaccessibile agli estranei verrà spezzato.
Quattro chiacchiere su Abbiamo sempre vissuto nel castello
Il primo elemento che rende questo libro estremamente particolare ed angosciante è la scelta del narratore. Viviamo la storia dal punto di vista di Merricat, la sorella più piccola, ma non sappiamo sino a che punto possiamo fidarci delle sue parole. È come guardare un paesaggio con degli occhiali che distorcono la realtà; non possiamo mai essere completamente sicuri di quello che abbiamo davanti.
I primi capitoli ci portano in giro per il paese insieme a Merricat che deve fare le commissioni per la famiglia. L’agitazione della protagonista è palpabile, il fatto che lei sappia già che qualcosa andrà storto acuisce la sensazione di disagio del lettore. Ed è proprio da queste prime pagine che si insinua l’angoscia per gli eventi che stanno per accadere.
Non è l’orrore a farla da padrone tra queste pagine, ma il dubbio, l’ansia, la rabbia e la paura. Tutte emozioni estremamente negative che si fa fatica a gestire e dalle quali spesso si rischia di essere sommersi. Emozioni che spesso riescono a tirare fuori il mostro che si nasconde in ognuno di noi.
Arrivi alla fine e continui a chiederti “Chi è il vero mostro della storia?”
Si sa troppo poco delle protagoniste, troppo poco delle motivazioni del passato per poter avere un quadro chiaro della situazione.
Il paese e il branco
Gli abitanti del paese sono coloro che più mi hanno fatto riflettere sull’animo della natura umana. In loro si legge chiara l’invidia nei confronti della ricchezza della famiglia Blackwood e la conseguente vena di compiacimento nei confronti della tragedia che li ha colpiti. Come se il male che hanno subito fosse una giusta punizione per il loro stesso status e per questo meritassero il loro scherno.
Nei paesani si palesa in maniera perfetta la psicologia del branco: teoria secondo cui quando gli individui si ritrovano in gruppo l’intelligenza media è pari a quella del meno intelligente tra di loro. In gruppo si diventa capaci di una cattiveria unica, capace di mettere in disparte tutta la razionalità di una persona.
Quando si affrontano certi temi non si può fare a meno di pensare a quanto quegli atteggiamenti siano tristemente attuali. Da sempre la paura, l’odio e l’invidia muovono i gruppi verso gesti inutilmente crudeli, a prescindere da chi sia il destinatario dei comportamenti.
Se volete sostenere Chiacchiere Letterarie e la rivista Chiacchiere d’Inchiostro, oltre che aiutarci a portare sempre nuove recensioni e ampliare le nostre attività, fate un salto su Ko-fi!