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Non si fanno colpi sotto il sole

C’erano giorni in cui le cose filavano lisce e giorni, ahimè ben più frequenti, in cui tutto sembrava andare storto. Quello, purtroppo, era un giorno del secondo tipo. A dirla tutta, Lenora se l’era sentito fin dal mattino che qualcosa doveva andare male. L’aveva intuito guardando fuori dalla finestra e scorgendo un sole alto e brillante nel cielo, quando per una volta il Padre Terno avrebbe potuto far loro la grazia di una giornata grigia e magari, già che c’era, anche bella piovosa. L’aveva detto agli altri che era il caso di annullare tutto: fare un colpo in pieno sole portava male, era risaputo, e veniva pure difficile sparire nel nulla quando non c’era nemmeno una piccola ombruccola dentro la quale nascondersi. Ma loro niente, non le avevano dato retta, e lei aveva fatto l’errore di seguirli anche se sapeva che le cose non potevano che andare male.

E infatti, erano andate male anzi, erano andate davvero da schifo.

Mentre correva sui tetti cercando di tenere testa ai compagni – quanto odiava essere quella con le zampette più corte, lo odiava profondamente – non poté fare a meno di rovesciare sulle loro schiene tutto il disappunto per non essere stata ascoltata:

«Ve l’avevo detto, brutte teste di rapa!»

«Non si fanno colpi sotto il sole, lo sanno anche i bambini!»

«Con cosa vi ha concimato vostra madre, con la ghiaia? Dovete avere quella al posto del cervello per fare un colpo in pieno sole, ve lo dico io!!»

Le sue grida non sembravano scalfire più di tanto il resto della banda, che correva forsennato da un tetto all’altro, eppure Lenora continuò a gridare tutte le peggiori infamie che le venivano in mente, almeno finché non arrivarono in prossimità delle mura di Arbòrea e del passaggio che avrebbe permesso di disperdere gli inseguitori tra le paludi.

Peccato che il passaggio fosse maledettamente chiuso, altra cosa storta in una giornata andata tutta storta. Lenora recuperò terreno con i suoi compagni perché questi si fermarono, imbarazzati, davanti al grosso cancello che impediva loro di raggiungere la salvezza.

«E questo da dove è saltato fuori?» esclamò Perillo, lo scemo della banda – che era fatta tutta di scemi, questo ormai Lenora l’aveva capito molto bene, e ci si era in parte rasssegnata.

«Toccava a te assicurarti che fosse aperto!» si difese subito Ginetto, l’armaiolo del gruppo. «Io ho pensato alle armi, il mio l’ho fatto» aggiunse, strappando a Lenora uno sbuffo di scherno.

«Se vogliamo proprio parlare di armi…» cominciò, ma poi dal basso sentirono i birri urlare e Lenora fu costretta a mettere da parte il suo “discorsetto” su quanto le sue armi fossero state inefficienti e ridicole per darsela di nuovo a gambe.

Saltellarono da un tetto all’altro, a zig zag, nella speranza che i birri si stancassero, e infatti accadde presto. Cosa non strana, fu costretta ad ammettere Lenora, dato che non erano nemmeno riusciti a portare via con sé il bottino.

Rifugiatisi sotto una tettoia, Lenora salì sul muretto e fece per riprendere il suo “discorsetto”, ma Tommaseo la precedette, con il suo solito tono ilare: «Certo che come colpo è stato proprio uno schifo» disse, ed ebbe pure il coraggio di ridere, cosa che irritò ancora di più Lenora.

«Ha fatto schifo perché ti sei dimenticato di prendere i soldi!» urlò, e subito fu costretta a tapparsi la bocca con gli zampini, per paura che qualcuno dal basso la sentisse.

Tommaseo fece una smorfia offesa, che segnò i lineamenti altrimenti morbidi del suo viso da coniglio. «C’hai portato sfiga, ecco cosa» disse, sbattendo il piede in terra come se suonasse un tamburo.

Lenora vide rosso. «Ho fatto cosa??» gridò, e di nuovo fu costretta a mordersi la lingua per calmarsi. «Ho solo cercato di fare quella sensata, cosa che nessuno tra voi fa mai!»

«Ma dai, per un po’ di sole che c’era…» brontolò subito Perillo, e Lenora lo fulminò. 

«Zitto tu, che ti sei perfino dimenticato di controllare il passaggio, testa d’uovo» lo rimbrottò Ginetto, e i due presero a insultarsi animatamente, seguiti a stretto giro da Tommaseo che non si tirava mai indietro quando si trattava di insultare qualcuno. 

Questo diede a Lenora il tempo per sbollire e capire dove fossero.

Si erano rifugiati nel portico di una grande casa signorile, silenziosa e con le larghe finestre serrate. Un’intuizione la raggiunse. «Ehi idioti, tacete un attimo» li rimbrottò, e i suoi compari si zittirono, stizziti ma incuriositi. «Avete visto dove siamo finiti?» continuò Lenora, indicando la facciata della casa. «È la casa del mastro contabile.»

«Sì, embè?» disse Perillo, e Lenora lo colpì al volo con uno scappellotto, approfittando dell’elevazione data dal muretto.

«Allora, idiota» sibilò, calcando sull’insulto. «Il mastro contabile non c’è, è andato al matrimonio della figlia a Torre.»

«Buon per lui e tanti auguri» disse Tommaseo, attirandosi a sua volta uno scappellotto.

«Buon per noi, vorrai dire» disse Lenora, tagliente. «Avete presente quello che ha fatto alla vecchia Mègara la settimana scorsa?»

«Chi, la cenciosa?»

Un terzo scappellotto volò all’indirizzo di Ginetto, che come gli altri tacque per massaggiarsi la testa. «Non chiamarla così» lo rimproverò Lenora. «Comunque, il contabile l’ha insultata davanti a tutti perché ha osato fermarsi sotto il suo portico per sistemarsi una scarpa.»

«E quindi?» sbuffò Tommaseo, che però si ritrasse subito, nel caso fosse volato un altro scappellotto.

Lenora lo guardò male. «E quindi, direi che è il caso di fargliela pagare per la sua arroganza. Mègara non merita un trattamento del genere.»

Perillo si grattò la fronte, confuso. «E come vuoi fargliela pagare? A insulti?»

 «No. Entrandogli in casa.»

I tre briganti raggelarono.

«Stai scherzando, vero?»

«Sei stata tu a dire che non si fanno i colpi sotto il pieno sole!»

«E che siamo degli idioti incapaci e…»

«Sì sì, tutto vero» li zittì Lenora. «Ma qui non si tratta di fare un semplice furto, qui si tratta di giustizia.»

«Addirittura?»

«Assolutamente. Lo dice il Codice.» Lenora li guardò uno ad uno: Perillo, lungo e stretto, con il naso enorme e perennemente rosso; Tommaseo con il pelo folto e le lunghe orecchie sempre un po’ mangiucchiate dai tarli; e infine Ginetto, basso e tozzo, il paracolpi del gruppo. Erano una manica di scappati di casa ma almeno avevano un Codice, era quello che li distingueva dai banditi qualunque.

Ergendosi nella sua ridotta statura, elevata il giusto dal muretto sul quale si era appollaiata, Lenora lo snocciolò per rinfrescare le loro menti, contando i punti sui gommini: «Non si ruba alle persone povere, non si ruba ai conoscenti e si vendicano sempre i torti del quartiere.»

Per enfatizzare il concetto, tolse il cappello scoprendo le orecchie appuntite, le fece ruotare verso la casa e la indicò con il berretto: «Il mastro contabile ha insultato Mègara e ora noi la vendichiamo.»

«Ma non sono sicuro che…» provò Perillo, e Lenora lo fulminò con lo sguardo.

Fu sufficiente, almeno finché era a un’altezza dalla quale potevano arrivare altri scappellotti.

«Va bene, hai già un piano?» disse Tommaseo, rassegnato, e Lenora annuì.

«Certo che sì. Intanto, aspetteremo la notte.»

***

Attesero che il sole si levasse di turno, rifugiati sotto una tettoia a qualche passo dalla casa del mastro contabile, dalla quale potevano tenere d’occhio il viavai. Come aveva detto Lenora, il proprietario di casa non c’era, e la casa se ne stette silenziosa e tranquilla fino al calar del sole. A quel punto, la banda di scalcagnati uscì dal rifugio e ripercorse la strada indietro fino al portico, cercando una finestra un po’ più incline delle altre a farsi aprire.

«Macchè, sigillata» sbuffò Tommaseo, provando una delle finestre al primo piano.

«Questa pure» disse Perillo, due finestre più in là.

Continuarono a provare le finestre una ad una, fino a quando Lenora non riuscì a individuare la vittima perfetta. «Trovata» mormorò, e poi fece cenno ai suoi idioti compagni di raggiungerla.

Con sapienza, e facilitata dai lunghi artigli affilati, sollevò un passante poco reticente e riuscì a scostare la veneziana il tanto sufficiente a insinuarsi al suo interno. Un secondo dopo, la finestra fu aperta per i compagni, che rotolarono con più o meno grazia all’interno, ultimo Ginetto che furono costretti a tirare in tre per farcelo entrare.

La casa era immersa nel buio e purtroppo Lenora era l’unica della banda a riuscire a vedere qualcosa, quindi dovette guidare i compagni verso il corridoio con una serie di «Shhhh», «Fai piano», «Lì c’è un comodino, idiota!» conditi da altrettanti «Ahi!» e «Urgh» e tonfi di calcagni sbattuti sugli stipiti e ginocchiate sui mobili.

Sulle scale, Lenora esitò un attimo, indecisa su quale fosse la realizzazione migliore della sua idea di giustizia.

«Rubiamo qualcosa dallo studio?»

«Magari hanno qualche bel servizio di piatti d’argento…»

«Io proverei la dispensa, sia mai che ci sia qualcosa di appetitoso…»

Lenora zittì tutti con un ennesimo «Shhh!» perentorio e si diresse verso il salotto, decisa a fare il maggior danno con il minor sforzo. Come si aspettava, il salotto era costellato di mobili antichi, tappeti pregiati e grandi quadri alle pareti, che Lenora rimirò con soddisfazione. C’era persino uno spicchio di luna che riusciva a penetrare da una veneziana, e che permetteva al resto della banda di raccapezzarsi.

«Rubiamo il quadro più grande?»

«E come lo porti, cretino?»

«Cretina sarà tua mamma!»

«Idiota mentecatto.»

«Shhh!» Lenora lanciò un’occhiata irritata ai tre idioti che si portava appresso, sospirò. «Non prendiamo nessun quadro, non siamo qui per rubare.»

«Ah no?» chiese Tommaseo, perplesso e un po’ deluso.

«No, siamo qui per giustizia.»

«Ancora questa giustizia…» brontolò Perillo, attirandosi l’ennesimo scapaccione, alla schiena però perché, senza muretto, più in alto di lì Lenora non era in grado di arrivare. «Ahi, va bene, non serve essere manesche!» protestò.

«Smettetela di farmi perdere tempo» sentenziò Lenora. «E aiutatemi a capire qual è il modo migliore per mandare il nostro messaggio.»

«Quale messaggio?» chiese Ginetto.

Lenora sospirò. «Che la nostra gente non si tocca, ovviamente.»

I tre banditi la fissarono, perplessi.

«Ehmm, glielo scriviamo da qualche parte?» propose Perillo.

«Gli pisciamo un po’ in giro?» rincarò Tommaseo, e quando Lenora lo guardò male aggiunse: «Funziona sempre, come messaggio!»

«Le scarpe!» esclamò Ginetto che era sì scemo, ma al contrario degli altri qualche volta ci imbroccava pure. «Usiamo le scarpe!»

Lenora gli rivolse uno sguardo soddisfatto. «Sei un genio, Gine’» disse, e l’ometto ridacchiò, in imbarazzo. «Davvero?»

«Certo» esclamò Lenora. «Le scarpe sono la soluzione.»

«Ehmm» provò Perillo, ma Lenora sapeva già di dover spiegare anche agli altri scemi quale pensata geniale avevano avuto lei e Ginetto.

«Il mastro contabile ha insultato Mègara perché ha osato sistemarsi una scarpa sul porticato. E noi allora gli riempiamo la casa di scarpe.» Lenora si guardò intorno, si grattò la testa pelosa. «Scarpe sporche, cenciose, bruttissime!»

«E dove le troviamo, tutte queste scarpe?» chiese Tommaseo.

«In città, ovviamente.» Lenora sorrise, mentre il piano prendeva forma nella sua mente. «Abbiamo ancora diverse ore prima del sorgere del sole. Sufficienti a raccogliere più scarpe possibile. E una volta raccolte…»

«Torniamo qui e le spargiamo per tutto il salotto!» esultò Ginetto, e Lenora si sentì talmente contenta da abbracciarlo, perfino, che nel suo caso significava poggiare gli zampini sui due lati dell’enorme circonferenza di Ginetto, e dargli qualche colpetto solidale.

«Allora è fatta, andiamo a cercare le scarpe.»

E le trovarono, anche con una certa facilità. Bastò dire in giro che volevano far capire a “quelli là” – ovvero i ricchi – che non dovevano scherzare con “noi di qua” – ovvero i poveri – perché un sacco dei loro vicini mettesse a disposizione scarpe di tutti i tipi: vecchie, rattoppate, pantofole strappate, scarpe da lavoro puzzolenti. Dovettero giusto promettere che le avrebbero rese, una volta finita la dimostrazione a “quelli là”, perché è vero che ci sta sempre aiutare chi vuol fare giustizia, ma le scarpe comunque costano ed è bene preservarle.

A metà della notte avevano racimolato talmente tante scarpe che non sapevano come fare a portarle dentro la casa. Per fortuna avevano rimediato pure un carretto, e dei sacchi per trasportare con più agilità le scarpe, che però pesavano, e anche tanto.

«Forse abbiamo esagerato» fece notare Tommaseo, ma Lenora scrollò la testa con decisione.

«No, ho un piano anche per questo» disse, e i tre scemi della banda si illuminarono. Aveva sempre buoni piani, lei. Certo, un po’ rompeva le scatole con cose tipo il non fare colpi sotto il sole e aveva idee strane sul portare cose dentro le case dei ricchi invece che tirarcele fuori, ma era comunque una gatta che sapeva il fatto suo, e la seguivano volentieri.

La ascoltarono anche per quell’ultima parte del piano, per quanto tutta la notte sembrasse loro molto strana. Lenora, infatti, voleva chiedere aiuto niente meno che ai birri, per portare dentro le scarpe.

«Ma sei matta?» fu la reazione iniziale di Ginetto, ma Lenora fu svelta a illustrare loro il perché quella fosse una soluzione brillante.

«Pensateci» disse con saccenza. «Noi ci fingiamo commercianti e diciamo ai birri che dobbiamo fare una consegna alla casa del mastro contabile. Ci lamentiamo un po’ del fatto che il mastro contabile se n’è andato a fare baldorie anche se sapeva della consegna, e li convinciamo ad aprirci la casa. E poi, uno di noi li distrae e gli altri sparpagliano le scarpe nel salotto. E oplà, la vendetta è servita.»

«E se entrano a controllare?»

«Non lo faranno, perché diremo loro che è roba pregiata, e che il mastro contabile ci tiene che non venga insozzata. Quello che conta per i birri, d’altronde, è che nulla venga portato via dalla casa. Mica gli importa se qualcosa ci entra, no?»

Il piano era talmente assurdo che convinse tutta la banda.

Si fecero prestare degli abiti da mercanti e si presentarono ai birri con la loro storia. Non dovettero neppure insistere, bastò promettere loro che avrebbero potuto controllare tutti i sacchi dopo la consegna, per essere certi che nulla venisse via dalla casa.

Fermarono il carretto davanti al porticato, attesero che il portone venisse aperto e poi, come da piano, Tommaseo distrasse i birri fuori con racconti sul commercio – era un esperto, o almeno si riteneva tale – mentre gli altri sparpagliavano scarpe per tutto il salotto. Le distribuirono ovunque: sui mobili, dietro le poltrone, sotto i tappeti. Il mastro contabile e la sua famiglia avrebbero trovato scarpe puzzolenti perfino dentro i vasi di piante.

Soddisfatti, ripiegarono i sacchi in modo da dimostrare che erano vuoti e uscirono. Mostrarono ai birri di non aver preso niente, attesero che la casa venisse richiusa e poi si sentirono finalmente leggeri: la giustizia, ancora una volta, aveva trionfato.

Stavano per andarsene con il loro carretto, quando uno dei birri disse agli altri. «Compa’, un secondo solo, c’ho da far acqua.»

«Aspetta di essere in caserma, no?» lo rimproverò un compagno.

«Scherzi! Me la faccio addosso. Questi c’hanno la latrina all’interno, ci metto un secondo, tanto non se ne accorgono.»

Lenora e i suoi compari raggelarono. Voltandosi, videro il birro fare dietrofront e tornare verso la casa del mastro contabile. Non sapevano dove fosse la latrina ma c’era la possibilità concreta che il birro passasse dal salotto e vedesse tutte le scarpe, e allora addio vendetta.

«Dobbiamo fare qualcosa» sibilò Lenora.

«E cosa?» chiese Ginetto. «Mi metto a urlare e attiro la sua attenzione?»

«Gridiamo al ladro?» propose Tommaseo.

Il birro aveva tirato fuori le chiavi e stava per aprire la porta.

«Mi metto a correre e vedo se mi inseguono?» disse Perillo. 

Lenora sentì l’ansia crescere, tanto da ottunderle la mente. E, prima che potesse razionalizzare quanto fosse idiota come cosa, si mise a quattro zampe e balzò verso il birro, urlando: «Nooo, l’acqua nooo!»

Non sapeva da dove le fosse venuta quella frase, forse qualcosa di atavico e felino si era risvegliato in lei alle parole del birro e gliel’aveva tirata fuori. Fatto sta che dimenticò, sorpresa lei stessa del proprio gesto, di ritirare gli artigli e atterrò con tutte e quattro le zampe sulla pancia del birro, che gridò di dolore: «Aaaah, levatemela di dosso!»

E Lenora ci provò, a levarsi di dosso dal birro, ma il problema con gli artigli era sempre che entravano molto bene ma poi facevano un sacco di fatica a uscire, e più provava a ritirarli più il birro urlava. Sotto gli sguardi scioccati del resto della banda, Lenora venne afferrata dagli altri due birri, che cercavano di liberare il compagno tirandola per la coda, con il risultato che il birro sopra cui era atterrata Lenora urlò ancora di più, finché gli artigli non uscirono tutti e quattro insieme con un sonoro “plop!” e una bella scia di sangue, e Lenora volteggiò nell’aria e atterrò con grazia pochi passi più in là.

Inutile dire che il birro dimenticò di dover pisciare e cominciò ad urlare: «Arrestatela! Aggressione! Interruzione di pubblica esecuzione!!»

Senza attendere oltre, la banda prese a correre e Lenora si trovò di nuovo ultima, ma per sua fortuna i birri erano ancora occupati a tirar su il compare ferito e ci volle un po’ prima che si mettessero al loro inseguimento. Riuscirono a nascondersi tra i vicoli grazie alle stesse persone che avevano prestato loro le scarpe, che furono felici di aiutarli finché non scoprirono che con tutta probabilità non le avrebbero più riviste indietro.

Nessuno seppe mai come, ma l’ultima sentenza pronunciata dal birro fu proprio quella che venne imputata a Lenora: da quel giorno, in giro per Arbòrea comparvero i manifesti con la sua faccia e sotto la scritta: Ricercata per interruzione di pubblica esecuzione: meglio viva, per fargliela pagare bene.

Lenora pensò che fosse il caso di levare le tende per qualche tempo, non tanto per i manifesti che erano palesemente assurdi, quanto per il rancore della sua gente che l’aveva aiutata a fare giustizia ma non si era vista restituire le scarpe.

Salutò Tommaseo, Ginetto e Perillo, con i quali sperabilmente non avrebbe più dovuto lavorare per un po’, e si imbarcò sulla prima nave in partenza da Tassinanta. Qualcuno, durante il viaggio, la sentì spesso borbottare: “mai fidarsi di un birro. Non sono buoni neanche a tenersi la loro acqua” e quella frase divenne una sorta di mantra, insieme a “mai, mai fare un colpo sotto il sole. E forse, neanche di notte conviene più di tanto”.

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Questo racconto nasce per introdurre Lenora la vendicatrice di Arbòrea, Gatta Lupesca Ladra Brigante creata per una mini-campagna di Brancalonia.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.

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