Femminismo, Parole di Donna, Recensioni, Un libro per la Casa

Stai zitta di Michela Murgia: il sessismo passa anche per le parole

Adesso ti spiego… Era solo un complimento… Non si può più dire niente… Non fare la maestrinaStai zitta…
Quante volte ci siamo sentite rivolgere frasi come queste? Quante volte è capitato che qualcuno ci sgridasse per il modo in cui parliamo, vestiamo, ci comportiamo in determinate situazioni? Crescere donna in un mondo ancora solidamente radicato in un’idea ben definita del genere femminile è come crescere costantemente sotto osservazione.

Ci sarà sempre qualcuno che avrà da ridire perché esprimi le tue idee in modo troppo enfatico, perché vesti in maniera troppo succinta e attiri gli sguardi; o perché poi ti lamenti se mentre cammini per strada attiri fischi e oscenità. Vale in parte anche per gli uomini, certo, molti per fortuna faticano a ritrovarsi nell’ideale di maschio scolpito nella coscienza collettiva.

Eppure c’è un’enorme differenza. Nessuno dà per scontato che un uomo ne sappia meno solo perché appartiene al genere maschile, ad esempio; e nessuno lo accusa di essersi attirato una pacca sul sedere perché indossava dei jeans attillati. Se esiste questa disparità evidente è perché viviamo in un sistema ancora radicalmente maschilista. Un sistema che fa delle parole le sue armi più subdole, perché sono così insite in noi che spesso, ahimè, nemmeno ci rendiamo conto della loro ingiustizia.

Recensione Stai zitta
Copertina di Stai zitta, disegnata dalla fantastica anarkikka

Stai zitta: quello che dici ha sempre un peso

Con Stai Zitta, Michela Murgia accende un faro su una situazione che tutte conosciamo già molto bene, ma che non sempre mettiamo davvero in prospettiva. Il libro è un compendio argomentato di frasi ed espressioni che noi donne ci sentiamo spesso rivolgere ma che, a ben guardare, sono più di semplici parole. Sono specchi della realtà che viviamo.

Le parole dimostrano che nonostante i numerosi progressi fatti in campo di disparità di genere, ancora abbiamo da combattere per sradicare certi stereotipi. Un esempio? Quando una donna mostra capacità decisionali e forza di carattere, le si dice che ha le palle. Quando ha famiglia e ottiene un successo lavorativo, si dice che è Brava e pure mamma. Non ho mai sentito di nessun uomo al quale venisse detto: cavolo, bravissimo. Ottimo lavoratore e pure papà! Come se fosse scontato che un uomo può essere genitore e avere una carriera, ma lo fosse molto meno per una donna. Dire che una donna ha le palle, poi, significa in un certo senso sottintendere che è diventata brava quanto un uomo. Anche se nel pronunciarlo non lo si pensa, si sta dando voce a uno stereotipo ancora profondamente radicato nella società: avere le palle è sinonimo di forza e di successo.

Le parole rispecchiano la realtà

C’è un motivo, secondo Murgia (e non la Murgia, come fa notare lei) se fatichiamo ancora ad accettare sostantivi come avvocata, sindaca e ministra mentre non abbiamo nessun problema a dire parrucchiera, cameriera e segretaria. Non è perché cameriera suona meglio di avvocata, né perché l’italiano ammette l’una invece che l’altra. È perché esistono cameriere donne fin da quando esiste quel ruolo, mentre le avvocate hanno molti meno secoli alle spalle. Il primo termine fa parte del nostro immaginario e dunque del nostro lessico, il secondo no.

Ma la lingua muta, si evolve continuamente, e il dizionario non è un’entità solida e inattaccabile. Siamo noi che crediamo debba esserlo perché fatichiamo a considerare normale chiamare una donna con il titolo che le spetta, quando questa riveste una posizione un tempo appannaggio esclusivo degli uomini. E se nella versione più soft le diamo il titolo al maschile, in quella ancor più maschilista togliamo addirittura il titolo, privandola di autorità.

Così, la sindaca Virginia Raggi diventa la signorina Raggi o Virginia, come fosse l’amichetta con la quale andiamo a prendere il gelato (quando non si arriva a offese di stampo feltriano). E l’astronauta Samantha Cristoforetti diventa Sam o addirittura Astromamma, mentre il collega rimane ovviamente Parmitano, perché nessuno si sognerebbe di chiamarlo Luca o Astropapà (benché abbia due figlie, badate bene).

Come combattere questa disparità? Usando i termini nel modo giusto. Una donna che ricopre un ruolo in ministero è una ministra, e una che si occupa di scienza è una scienziata, o un’astronauta, una chimica e così via. Se il termine specifico suona strano, è solo perché non siamo abituati. Ma tranquilli, passa in fretta. Basta iniziare a usarlo.

Stai zitta
Illustrazione di Stai zitta, disegnata dalla fantastica anarkikka

Stai zitta, lascia che ti spieghi

Tra le pagine di Stai zitta ci sono molti esempi reali a sostegno delle argomentazioni. I più interessanti sono quelli relativi al fenomeno del Lascia che ti spieghi. Come il caso dell’intervista che Michela Murgia tenne su Radio Capital a Raffaele Morelli, che poi dà anche il titolo al libro. Sentendosi attaccato e forse incapace di sostenere davvero le sue argomentazioni, il noto psicologo aggredì infatti Murgia intimandole di “Stare zitta e ascoltare”. Una cosa simile accadde con Mauro Corona, che intervistato da Bianca Berlinguer cercò di metterla a tacere dicendole Stia zitta gallina. Difficile immaginare la stessa cosa se, al posto di Murgia e Berlinguer, ci fossero stati due intervistatori uomini.

Per Michela Murgia, entrambi i casi hanno la stessa radice: la convinzione di Corona e Morelli che, in quanto uomini, ne sapessero di più delle due donne che li stavano intervistando. Il fenomeno del Taci e ascolta è talmente tanto comune che è stato perfino coniato un termine specifico per rappresentare quando gli uomini ci spiegano le cose: mansplaining. Tutte noi ci siamo trovate almeno una volta davanti a un uomo convinto di saperne più di noi solo in quanto appartenente al sesso maschile.

In piccolo, ad esempio, ho vissuto la stessa cosa all’università, con colleghi certi di conoscere più di me di tecnologia e gaming (due settori finora appannaggio preferenzialmente maschile) solo in quanto uomini. In casi come questi, se siamo fortunate e non ci tocca la spiegazione paternalistica come minimo dobbiamo aspettarci un test volto a capire quanto, di quel mondo, conosciamo realmente. E vi assicuro che agli altri uomini difficilmente capita lo stesso onore di essere misurati e giudicati degni di parlare.

Stai zitta
Illustrazione di Stai zitta, disegnata dalla fantastica anarkikka

Ma quindi state dicendo che la colpa è degli uomini?

Sì e no, perché quello che Michela Murgia fa con Stai zitta non è aprire una caccia agli stregoni. È spingere tutti, uomini e donne, a ragionare sul peso delle parole. Viviamo in una società che ancora fatica a riconoscere certi meriti alle donne. Ma lo scopo di segnalarlo non è rimproverare gli uomini perché hanno quello che noi non abbiamo, né dir loro che sono cattivi perché non ce lo vogliono dare.

È far notare quanto poco senso abbia difendersi dicendo “Io non sono maschilista” e poi continuare a vivere con la coscienza a posto. È far riflettere sul fatto che metà della popolazione vive un privilegio che gli è stato dato solo in virtù del suo sesso. Un parametro che non denota meritocrazia né giustizia. Dire che gli uomini non hanno colpe dei loro privilegi e che dunque non possono farci niente è camminare con le mani davanti agli occhi.

Dalle parole di Michela Murgia:

Dire «Ma io cosa c’entro con questo» è infantile e un po’ furbo, perché significa non voler riconoscere la differenza tra il concetto di colpa e quello di responsabilità. La colpa è un carico morale esclusivamente personale e, a meno che tu non abbia praticato deliberatamente un’ingiustizia o una violenza su qualcuna, ovviamente non è tua. La responsabilità invece è un carico etico collettivo che ci riguarda tutti e tutte, perché le regole che seguiamo ogni giorno reggono la disuguaglianza che viviamo, anche se in misura diversa. La colpa ce l’hai o non ce l’hai. La responsabilità invece te l’assumi se pensi che quelle conseguenze ti riguardino e tu possa fare qualcosa per modificarle in meglio.

Cosa può fare quindi un uomo per assumersi questo carico etico? Iniziare a ragionare sulle parole che usa, ad esempio. La prossima volta che va al pronto soccorso e viene assistito da una dottoressa, dovrebbe chiamarla dottoressa e non signorina. Esattamente come farebbe se il medico fosse uomo: dottore e non signore. Se ricopre un ruolo di autorità, potrebbe cominciare riconoscendo la medesima autorità alle colleghe pari in grado. O indignandosi con loro quando qualcun’altro non lo fa solo in virtù del loro sesso. Se è un giornalista, un presentatore e così via, potrebbe iniziare a chiamare tutti gli invitati per titolo e cognome, e non solo gli uomini.

Se assiste in generale a situazioni di palese discriminazione di genere, potrebbe schierarsi invece che stare in disparte a guardare. Prendere posizione è già il modo più forte per combattere. E se a farlo è la popolazione tutta e non solo metà, la battaglia si vince molto più in fretta.

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Un sentito ringraziamento alla Giulio Einaudi Editore, che ha fornito una copia di Stai zitta per questo articolo. Il libro è inserito all’interno del progetto Un libro per la Casa, in collaborazione con la Biblioteca Anna Cucchi della Casa della donna di Pisa.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.