Chiacchiere d'Inchiostro, Racconti, Scrittura

Un dettaglio da poco: un racconto di Riccardo Lupi

Questo racconto è inserito nella terza call di Chiacchiere d’Inchiostro, dedicata alla settimana più oscura e terrificante dell’anno.

Il progetto è pensato per dare spazio e visibilità alle voci degli autori emergenti. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.

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Una sottile lama di luce penetra dalle imposte socchiuse  della mia camera da letto e mi colpisce il viso, svegliandomi. Sono i raggi tiepidi di un timido sole primaverile, ma per la mia testa straziata dai postumi di una sbronza colossale hanno la ferocia di un punteruolo conficcato in mezzo agli occhi. Il palmo della mia mano sinistra scivola sul lato opposto del letto: è un gesto istintivo, un’abitudine di cui non riesco a liberarmi, o, come puntualizzerebbe con una nota di condiscendenza il mio terapeuta, il dottor Stevens, di cui non voglio liberarmi. Mia moglie Susan non ha dormito nel nostro letto questa notte, come ogni notte da un anno esatto, dal giorno dell’incidente. 

Mi siedo sul bordo del materasso, raccolgo da terra una lattina di birra avanzata da ieri sera e la ruoto a mezz’aria per assicurarmi che ne sia rimasto almeno un sorso. Trangugio il liquido ormai tiepido che rimane sul fondo, ne assaporo il gusto amaro e metallico, lo sento riempirmi la bocca e scivolarmi giù per la gola fin dentro le budella. Getto un rapido sguardo al comodino dal mio lato del letto: sei lattine di birra vuote, un bottiglia di Macallan piena per metà e una sola compressa di Xanax superstite nel blister da dieci. Non riesco a trattenere una punta di malsano orgoglio nel constatare quanto ancora sia dura la mia pellaccia: tutta quella roba sarebbe stata in grado di abbattere un cavallo da tiro. 

Ieri sera io e Susan abbiamo discusso ancora una volta dell’incidente; è stata una pessima serata, l’anniversario della morte di Mary ci ha resi più malinconici e irascibili del solito. «È stata colpa tua.» Quella frase, quelle quattro parole vomitate a denti stretti da Susan come un anatema tribale hanno dilaniato definitivamente quel che ancora sopravviveva del nostro matrimonio, ormai niente più che una penosa accozzaglia di gesti abitudinari e autocommiserazione. Forse Susan ha ragione, forse se non avessi bevuto così tanto quella sera avrei visto il minivan che sbucava dal viottolo vicino casa, o avrei almeno controllato che Mary avesse allacciato la cintura di sicurezza.  Davvero non lo so, forse ha ragione lei o forse le cose sarebbero andate così in ogni caso, so solo che ogni volta che mi metto a pensarci mi sembra di uscirne pazzo.

Mi trascino fino al bagno sollevando a fatica i piedi dalle piastrelle fredde, osservo il mio volto riflesso allo specchio appeso sopra il lavandino, niente più che la copia sbiadita e grottesca dell’uomo che ero un anno fa: i miei occhi paiono quelli di certi vecchi cani malati di cataratta, acquosi, vacui, spenti. I capillari color porpora si diramano come microscopiche ragnatele sulla pelle del mio viso, non più tesa e morbida ma congesta e pendula, tanto che ho l’impressione voglia colare via dagli zigomi e spappolarsi sul pavimento. Mi lavo il viso con l’acqua ghiacciata, lottando col senso di nausea che sgorga da un punto imprecisato in mezzo allo stomaco; spazzolo i denti e la lingua con foga nel tentativo di cancellare dalla bocca il sapore del whiskey ma senza successo. Torno in camera, apro l’armadio e fisso la fila ordinata di grucce da cui pende una gran quantità di completi, la maggior parte indossati forse un paio di volte. Nei miei primi quarant’anni ho sempre trovato gente pronta a dispensare tanti consigli, ma mai nessuno che mi abbia insegnato quale abito si debba indossare per la messa commemorativa in onore della propria figlia. Opto per il completo blu notte, il preferito di Susan. 

Mi dirigo a passo lento verso la chiesa di Saint Thomas. Una foschia fitta e lattescente ammanta ogni cosa: le case basse di mattoni che si inseguono tutte identiche ai due lati della via; le macchine, che paiono comparire dagli incroci come accozzaglie di lamiera e plastica dotate di vita propria per scomparire subito dopo con un rombo e uno sbuffo. Infine, i piedi e le gambe e la vita delle poche persone per strada a quest’ora, che sembrano scivolare più che camminare lungo l’acciottolato delle vie centro. 

Il sagrato della chiesa è gremito di persone, per lo più parenti e amici di Susan. Mi sono ormai abituato alla stoica indifferenza che la famiglia di mia moglie mi riserva dal giorno dell’incidente, ma il gelo con cui vengo accolto questa mattina mi trafigge come una stilettata nel petto: non un solo cenno di saluto col capo, non uno sguardo, fosse anche di commiserazione o di sdegno. Non c’è nemmeno quel chiacchiericcio sommesso e accusatorio che in genere si diffonde come un frinire di grilli non appena qualcuno si accorge della mia presenza. Niente. Condannato senza appello a un’indifferenza plenaria. Voglio parlare con Susan. 

Mi faccio strada tra la folla di doppiopetti scuri, tailleur ancora più scuri, sguardi accigliati e labbra tese e la trovo dopo qualche minuto, seduta sull’ultimo gradino della corta scalinata che porta alla navata principale. Ha la schiena rivolta verso il sagrato della chiesa, le sue labbra sfiorano appena una Winston blu consumata per metà; pare intenta a osservare annoiata un punto imprecisato oltre il basso filare di tassi che delimita il perimetro della proprietà della parrocchia. Mia moglie è sempre stata una donna attraente, indiscutibilmente fuori dalla mia portata, ma quel suo fascino etereo da diva di Hollywood degli anni Venti sopravvive ormai più nei gesti che nell’aspetto: lo sfarfallio rapido delle sue ciglia lunghissime, quell’accavallare le gambe in un unico gesto sinuoso, o quel suo modo di fissare le persone in volto, quasi queste fossero fatte di vetro e potesse vedervi attraverso.

«Ciao Susan.» le dico sedendomi accanto a lei.

Susan non si volta. Inspira un’ultima lunga boccata di sigaretta, la spegne contro la suola della scarpa e la getta in strada.

«Avremmo potuto ancora essere felici, e invece hai rovinato tutto» mi dice, sempre senza voltarsi. Vorrei correrle dietro mentre si avvia a passo lento verso l’ingresso, vorrei dirle che possiamo ancora essere felici ma non ho più le forze per raccontare storie a cui nemmeno io credo. 

Entro in chiesa e mi siedo sull’ultima fila di panche, accanto ad una coppia sulla cinquantina che non ho mai visto.

«È davvero una tragedia.» dice lei.

«Prima la piccola e adesso questo. Quanto deve soffrire ancora quella povera donna?» dice lui.

«Pare che stia dando di matto, sai? L’hanno sentita rivolgersi al marito come se fosse ancora vivo» continua la donna.

Mi alzo in piedi di scattoe corro verso l’altare. A lato del pulpito c’è una cassa funebre di mogano cesellato, il legno è liscio, lucido, bellissimo. La cassa è aperta. Mi avvicino per guardare all’interno. Devo riconoscerlo, i truccatori delle pompe funebri hanno fatto un lavoro incredibile. Sdraiato lì dentro sembro ringiovanito di dieci anni: ho gli occhi chiusi, la pelle tesa e lucida color del caramello, un’espressione beata in volto come se mi fossi appisolato su una spiaggia caraibica al tramonto. Solo sulla tinta dei capelli avrei qualcosa da ridire: quel nero corvino non mi si addice proprio, sarebbe stato meglio lasciare una spruzzata di bianco qua e là. Niente di grave, comunque, è un dettaglio da poco.

Editing a cura di Marco Garinei

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Qualche nota sull’autore

Riccardo Lupi ha ventinove anni e vive appena fuori Milano. Liceo scientifico e poi sei anni di odontoiatria all’università: una decade abbondante in ambito scientifico e nonostante tutto si sente felice solo quando sfila i guanti e comincia a sfogliare un buon libro.

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