Chiacchiere d'Inchiostro, Racconti, Scrittura

Il prodigio: un racconto di Massimiliano Albicini

Questo racconto fa parte della terza call di Chiacchiere d’Inchiostro, dedicata alla settimana più oscura e terrificante dell’anno. Il progetto è pensato per dare spazio e visibilità alle voci degli autori emergenti. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.

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L’uomo si fece largo a fatica tra le fronde basse dei giovani pini marittimi. Scavalcò una roccia di notevoli dimensioni affiorante dal terreno e si avventurò lungo un piccolo sentiero scosceso, a malapena distinguibile nella forra che lo circondava. La folta macchia mediterranea degli alberi già adulti formava una volta naturale sopra la sua testa, filtrando i raggi del sole e disegnando sulla realtà una fitta trama di gocce di luce che confondevano lo sguardo.

Fino a quel momento il cammino, rami a parte, era stato agevole. Ora però le cose si facevano più serie: si ritrovò ad ansimare e sudare copiosamente mentre scendeva lungo l’irregolare declivio della collina. La discesa era ripida. In più punti dovette aggrapparsi ai tronchi degli alberi per evitare di cadere, mentre il terreno friabile cedeva e sdrucciolava sotto le suole rinforzate delle sue scarpe da trekking.

Non aveva idea di quanto tempo avesse impiegato per arrivare alla sua meta, ma alla fine vi giunse, quasi senza preavviso. Scostò un ramo in apparenza uguale a tutti gli altri e lo spettacolo che gli si aprì di fronte gli mozzò il fiato in gola, nonostante non fosse facile allo stupore.

Era sbucato su una specie di piccolo promontorio naturale, abbarbicato sul lato della montagna. Sotto di lui, una decina di metri più in basso, onde impetuose si infrangevano sugli scogli, con un intenso fragore liquido. Alzando lo sguardo poté ammirare il mare, che si perdeva all’orizzonte. Il blu intenso delle acque creava una netta demarcazione con l’azzurro ceruleo del cielo, e non fosse stato per la violenza rabbiosa con cui i flutti si scagliavano sulla scogliera sottostante e il volo occasionale di qualche gabbiano, si sarebbe potuto pensare di stare osservando un dipinto.

L’uomo inspirò profondamente l’aria salmastra, socchiudendo gli occhi e ricavandone un piacere difficile da descrivere. Quando si fu impresso per bene nella mente le sensazioni del luogo, si diede un’occhiata intorno per capire da dove poteva scendere. Intravide alla sua destra una minima variazione nel compatto tessuto vegetale che lo circondava, e decise di tentare. Fu fortunato, perché il nuovo percorso digradava verso il mare, aggirando una specie di enorme roccia frastagliata che sembrava sospesa sulle acque, in attesa di precipitare da un momento all’altro. Nonostante fosse costituito quasi per intero da ghiaino instabile, era parecchio più agevole del tragitto in mezzo alla pineta, e l’uomo arrivò alla spiaggia senza fatica.

Una volta che fu riuscito a rimettere i piedi su una superficie orizzontale, emise un sospiro di soddisfazione. Si trovava in una minuscola caletta naturale, lunga al massimo una trentina di metri, delimitata ai due lati da pareti quasi verticali che affondavano nelle acque. Era su quelle protrusioni rocciose che le onde si scagliavano con tanta veemenza. La natura friabile della montagna era testimoniata dalle grandi pietre rotolate lungo il declivio, che punteggiavano il piccolo arenile come sculture irregolari. La spiaggia non arrivava fino al mare, ma terminava almeno un paio di metri prima, delimitata da una fila irregolare di scogli.

Non c’era nessuno a parte lui.

Possibile?

Si spostò di qualche metro e, celata da una delle grosse pietre, vide la bambina. Stava seduta sulla rena scura della spiaggia, in assorta contemplazione del mare. Poteva avere dieci o undici anni, e i capelli lunghi e scuri si agitavano pigramente nel vento. Aveva gli occhi socchiusi, com’erano stati quelli dell’uomo poco prima sul promontorio, e si stava godendo con tutta evidenza la quiete del posto.

«Ciao» disse l’uomo in tono cordiale.

La bimba voltò la testa verso di lui, sorpresa. Dopo la confusione del primo istante, però, la sua espressione si fece compiaciuta.

«Chi sei?»

«Un viaggiatore. Mi piace trovare posti nuovi dove andare, e amo la natura. Sono finito qui cercando di arrivare alla battigia.»

«Ciao, signor viaggiatore. Vuoi sederti? Si sta molto bene.»

L’uomo si avvicinò, condiscendente, e si accoccolò a sua volta sulla sabbia ruvida e calda. Rimasero in silenzio per un po’, seduti vicini. L’idea che se qualcuno avesse potuto vederli avrebbe potuto scambiarli per padre e figlia lo fece sorridere. Il sole era nella sua parabola discendente pomeridiana, ma era ancora ben alto nel cielo, quasi di fronte a loro. Sollevò una mano davanti agli occhi, a distanza di braccio. La bambina lo guardò, incuriosita.

«Cosa fai?»

«Sto calcolando quanto tempo ci vuole prima che il sole tramonti.»

«Davvero? Come si fa?»

«È facile. Devi sollevare la mano di taglio, e vedere quante dita ci sono tra l’orizzonte e il sole. Ogni dito è circa un quarto d’ora. Attenta a non farti abbagliare.»

La bimba allungò il braccio davanti a sé, facendo sporgere inconsciamente la lingua dalle labbra nello sforzo della concentrazione.

«Non mi bastano le dita.»

«Devi mettere le mani sovrapposte, fino a coprire tutto lo spazio. No, il pollice no. E le tue dita sono più piccole, conta dieci minuti ciascuna.»

«Direi… circa due ore.»

«Molto brava. Grossomodo il mio calcolo.»

Fu di nuovo silenzio. Stavolta fu l’uomo a romperlo.

«Certo che qui è proprio isolato.»

«Molto. Ma a me piace.»

«Perchè?»

«Adoro il mare e la natura, come te. E invece mi fanno schifo la confusione, e i posti con troppe persone. Qui non viene mai nessuno, perché nessuno lo conosce. I turisti preferiscono la passeggiata dei trecento scalini, oppure arrivare alla spiaggia grande con i battelli. La gente non percorre piste sconosciute, gli insegnano ad averne timore. Così fanno sempre tutti le stesse strade.»

«Io ci sono arrivato. Mi piace scoprire posti nuovi.»

«È una cosa buona, no?»

«Credo di sì. Vieni qui spesso?»

«Abbastanza. Quando riesco a convincere mia madre a lasciarmi uscire. Le dico che vado con i miei amici, ma in realtà non lo faccio quasi mai.»

«Dove abiti?»

«Un paio di chilometri in quella direzione.»

Puntò il ditino verso sud, al di là della rupe che si inabissava tra le onde schiumose. La violenza dei marosi era tale che minute goccioline d’acqua salmastra arrivavano fino ai loro volti.

«Sei parecchio lontana da casa. Non hai paura degli estranei?»

La bimba fece spallucce.

«Non vedo perché dovrei.»

«Beh, i ragazzini dei dintorni…»

«Parli delle sparizioni. Ho sentito mio papà e la mia mamma che ne parlavano. No, non ho paura.»

«Come mai?»

«Perchè non credo sia stato un uomo. Penso più a una specie di prodigio.»

«Un che?»

«Un prodigio. Ce l’hanno raccontato a scuola. È una cosa fantastica, che trascende l’ordine delle cose. Però può anche essere mostruosa.»

L’uomo fece una risatina.

«Affascinante. Un prodigio… verrebbe quasi da crederci. Come fai a dirlo?»

«Non lo so. Però ho questa sensazione, che sia all’opera qualcosa di portentoso. In quanto tale, non mi fa paura. Anzi, ne sono affascinata.»

«E se dovesse prenderti? Il prodigio, come lo chiami tu?»

La bimba si girò verso l’uomo. Nei suoi occhi scuri era dipinta un’enorme consapevolezza, così vasta da dare disagio. Di più. C’era anche una sorta di ironico divertimento.

«Non credo accadrà. Sono un’ottimista.»

L’uomo fece una risata sarcastica.

«L’ottimismo funziona fin quando non ti trovi davanti ai fatti. E se fossi io, il prodigio di cui parli?»

«Tu?»

«Sì. Qui siamo lontani da tutto e da tutti. Nessuno sa dove sei. Potrei averti vista scendere lungo il sentiero nel bosco. Potrei averti seguita.»

La bambina distolse lo sguardo.

«Non è possibile. Sono stata attenta.»

«Oh, certo, lo sei stata. Ma io sono un adulto. Potrei averlo fatto senza che te ne accorgessi. Ti sto facendo paura?»

Lei esitò un istante, poi si alzò in piedi, spazzando via la sabbia dallo slippino rosa con un gesto nervoso delle mani.

«Un po’.»

Anche l’uomo si alzò.

«Non devi. Non ti farò niente che tu non ti sia meritata.»

La bimba arretrò di qualche passo, attenta a non distogliere lo sguardo dallo sconosciuto.

«Davvero? O è una cosa che stai raccontando a te stesso?»

L’uomo non si mosse. Aveva valutato bene la caletta. L’unico posto dal quale la bimba avrebbe potuto scappare era la discesa dalla quale era arrivato lui, e lei se ne stava allontanando. Il mare era troppo agitato per consentirle di nuotarci, e gli scogli erano acuminati e taglienti. Non aveva modo di andarsene.

«Non preoccuparti.»

Avanzò di qualche passo in direzione della bambina. Lei indietreggiò ancora, sempre senza perderlo di vista, avvicinandosi alla parete sassosa dal lato meridionale. Lì il sentiero si restringeva: la rena sabbiosa s’inerpicava su una dolce salitella, e in capo a una decina di metri si arrivava alla liscia parete a strapiombo.

Man mano che si avvicinavano alla rupe, il frastuono dei cavalloni sugli scogli si intensificava. Le gocce d’acqua marina che li avvolgevano, sollevate dalla corrente, divennero più fitte, portando con loro l’odore penetrante del mare. Solo che non era più così piacevole. Ora aveva un sottofondo di marciume, un sentore di morte, che prima non era percepibile.

La bambina si spostò lateralmente di un passo, verso la riva, facendo scivolare una mano su una grande roccia tondeggiante, così diversa da quelle che c’erano sulla spiaggia. Vi strisciò contro con la schiena. Erano almeno tre o quattro metri sopra gli scogli, da quel punto anche buttarsi in acqua era impossibile. L’uomo si rilassò ancora di più.

«Non sono preoccupata. So che me la caverò.»

Lui rise, accorciando la distanza che li separava, senza affrettarsi. La parte della caccia era quella che preferiva. Il resto, quello che sarebbe venuto dopo, era qualcosa di viscido, ributtante e schifoso, una necessità a cui preferiva non pensare.

«Oh, ne dubito. Ne dubito molto.»

La bimba lo fissò, lo sguardo freddo come il ghiaccio.

«Sì, invece.»

L’uomo fece un altro passo nella sua direzione, calpestando uno spesso tappeto di aghi di pino e foglie morte. Appoggiò il piede e il suolo cedette sotto di lui, facendolo sprofondare nel terreno con un gemito di sorpresa. Scivolò nelle tenebre sottostanti, graffiandosi il petto contro un intrico di radici scheletriche, terriccio e pietre irregolari. Tentò di afferrarsi con le mani, ma non riuscì a trovare appigli.

La caduta non durò a lungo. Quando i suoi piedi urtarono il fondo della buca nella quale era precipitato non si fece alcun male, perché il terreno era morbido, probabilmente rena. Si diede una rapida occhiata intorno. Era all’interno di un anfratto naturale, una specie di cunicolo verticale chiuso. Non era molto ampio, tanto che allargando le braccia riusciva a sfiorare le pareti che lo costituivano. Erano lisce e prive di appigli, ne sentiva sotto le dita la superficie levigata.

Alzò lo sguardo, e un paio di metri sopra la sua testa vide il colore del cielo, attraverso un buco rotondo. Sembrava un’immensa luna azzurra, sospesa nel buio della notte.

Il volto della bambina comparve nel foro, come un inizio di eclisse.

«Te l’avevo detto che me la sarei cavata» cantilenò, frullando le mani ai due lati della testa in un gesto derisorio.

L’uomo non disse niente. I suoi occhi si stavano adattando all’oscurità, e dopo il primo momento di stupore stava recuperando la sua freddezza.

La prima cosa che lo colpì fu il fetore.

Quel maledetto fetore. Odore di feci, urina, corruzione e follia. Fuori l’aveva sentito di sfuggita, mentre lì era dappertutto. Sembrava stillare dalle pareti stesse.

Spostò il peso del corpo da un piede all’altro, e gli sembrò che la sua scarpa affondasse nella melassa. Una zaffata gassosa di putrefazione gli arrivò al viso, facendogli lacrimare gli occhi. Abbassò lo sguardo, sulla sensazione pastosa che sentiva sotto di sé, e non fu del tutto stupito di ciò che vide. Occhi. Occhi morti. Rivolti verso il buco, a cercare l’ultima luce prima della fine.

Contò i corpi umani, raggomitolati sotto di lui. Uno, due, tre. Un quarto era abbandonato con la schiena contro la parete, come se si fosse voluto sottrarre al contatto con lo schifo che lo circondava. E intorno, scheletri e cadaveri di animali, in diversi stadi di decomposizione. Gli parve di riconoscere un paio di cani, con ancora brani di carne marrognola attaccati alle ossa, e alcuni animali più piccoli, forse gatti.

Tornò a voltarsi verso la luna azzurra, senza badare alla sensazione che gli veniva dall’ammasso di tessuti morti sotto i piedi.

«Sei proprio tu, allora.»

La bambina rise, una risata gaia e argentina, che rimbalzò come chicchi di grandine all’interno del buco.

«Sono io. Il prodigio. Il portento in questo mondo. Non sei orgoglioso del tuo privilegio?»

«Perché stai facendo questo?»

«L’ho sempre sentito dentro di me. Negli ultimi tempi era diventato così potente da non riuscire a nasconderlo, così ho trovato questa spiaggia. Qui potevo ridere, piangere e urlare, senza che nessuno potesse sentirmi. Poi ho trovato la buca, il resto è venuto da sé. Le prime volte sono stati animali. Con loro è stato facile, ma poco soddisfacente. Con i bambini è meglio.»

«Quanti?»

«Quattro, per adesso. Contali pure se vuoi, sono lì con te. Li ho presi nei paesini dei dintorni, per non destare sospetti. Non volevo che mi scoprissero.»

Gettò distrattamente del ghiaino nel buco con un piede. I detriti colpirono la faccia dell’uomo, che abbassò lo sguardo per evitare gli finissero negli occhi. All’altezza del suo mento vide incastrata in una crepa quella che probabilmente era un’unghia spezzata. Vicino a essa, scure strisce parallele di sangue secco.

«Li hai portati qui a giocare…»

«… poi li ho fatti cadere nel buco. E ho aspettato. Sono venuta qui ogni giorno, li ho guardati morire di sete. Anche se forse alcuni di loro sono morti di paura. All’inizio urlano, sai? Sperano sempre che qualcuno possa sentirli. Ma non accade. Allora cominciano a pregare. Poi a parlare. E io amo parlare con qualcuno che sa di morire. Che è ormai certo della sua fine. Sapessi quello che dicono, nei loro deliri!»

«Lo immagino. E adesso?»

«Adesso tocca a te. Grazie di essere venuto qui. Sono curiosa di vedere se durerai di più… voglio scoprire se un adulto è più forte di un bambino. Quello che è durato più a lungo ci ha messo sei giorni.»

L’uomo scosse la testa.

«Sapevo che eri tu. L’ho sentito quando ti ho vista.»

Appoggiò le mani sulla roccia liscia, esplorandola con puntiglio. Nessun appiglio, nessuna possibilità di arrampicarsi.

«Davvero? Si nota così tanto?» chiese la bambina, beffarda.

L’uomo si addossò alla parete con il corpo, vi aderì con il petto e la pancia. Qualcosa gli gorgogliò dentro al ventre. Allungò le braccia verso l’alto.

«Sì. Perché hai ragione, quasi su tutto. È all’opera un prodigio. Qualcosa di portentoso che trascende l’ordine delle cose.»

Sentì le fibre del suo corpo che vibravano e si distendevano, seguendo gli impulsi del suo strano cervello. Il suo addome si aprì e si dilatò, e dalle dita iniziarono a spuntare miriadi di grigi fili acuminati.

«Solo che non sei tu. Sono io.»

La bimba, inginocchiata sul bordo della buca, rimase interdetta. Lo fissò con tanto d’occhi, quel volto pallido addossato alla roccia, baluginante nel buio della fenditura che le aveva dato tanto divertimento. Per un istante le parve che si fosse dilatato in una smorfia innaturale, mettendo in mostra denti troppo acuminati per essere umani.

Ma no, non era possibile. Era lei il centro di tutto, il culmine dell’esistenza. Il vertice del dominio sulla vita. Lei e nessun altro.

Le corse un brivido lungo la schiena, succhiò aria nei polmoni con un rantolo sibilante. L’uomo stava risalendo lungo la parete priva di asperità. Strisciava verso di lei, verso l’uscita dal buco nel terreno. La sua faccia si stava deformando come se l’attrito con la pietra la stesse stirando verso il basso. Le sue mani erano diventate protuberanze piene di spilli, che ruotavano e si dimenavano facendo presa sulla roccia, per trascinarlo verso l’alto. La bambina si spinse indietro con i piedi scavando solchi nella rena cedevole, respirando affannosamente, gli occhi spalancati per il terrore. Il sole inondava di rosso la calle, disegnando ombre nette e contrasti di nero in ogni angolo. Avrebbe potuto alzarsi in piedi per tentare di fuggire, avrebbe avuto più possibilità. Ma era tanta la paura dell’ignoto, di quell’inconoscibile bestia che stava emergendo dal terreno, che le gambe le si erano come congelate.

Gli organi prensili del mostro emersero dal bordo della buca, quindi fu la volta di quella che era stata la sua testa. Ma la faccia non c’era più, sembrava trasformata in una tetra successione di denti aguzzi sporgenti da una pallida vescica pulsante, e gli occhi erano pallini neri quasi invisibili emergenti ai due lati. Solo la voce, calda e comprensiva, era rimasta la stessa.

«Mi hai evocato con i tuoi gesti, e sono giunto. Sono qui per te.»

Allungò uno dei suoi arti alieni, e dalla foresta di chiodi che li rivestiva comparve uno stiletto. Lo fece dondolare nell’aria davanti alla bimba, che continuava a fissarlo con occhi e bocca spalancati, senza credere a quello che stava vedendo. Le si conficcò in un polpaccio, inchiodandola al terreno. Non ci fu sangue. Era attento, non voleva ne andasse sprecata neanche una goccia.

La bambina non provò dolore, solo una sensazione di ottundimento, come se qualcuno le avesse stretto la caviglia con una mano calda.

Il prodigio emerse del tutto dal terreno. I corpi dentro la buca erano marciti, inutilizzabili. Ma la bimba era viva e fresca, e il suo sangue dolce come nettare. La tirò a sé con un gesto rapido e l’avvinghiò.

Lei si dibatté inutilmente nella forza del suo abbraccio, senza emettere un suono se non qualche mugolio sfiatato. Poi sentì il grugnito soddisfatto del mostro che affondava la faccia nella morbida carne del suo ventre, la pelle della sua pancia che veniva maciullata da denti raspanti. E gli strepiti dei gabbiani nascosero al mondo la disperazione delle sue grida.

Editing a cura di Marco Garinei

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Qualche nota sull’autore

Nato a Modena nel 1972, residente sulle prime colline del modenese, Massimiliano Albicini ha seguito un percorso accademico discontinuo sino alla laurea in fisioterapia, ambito nel quale attualmente esercita.

Da sempre appassionato lettore, soprattutto di letteratura contemporanea e fiction, ha deciso da un paio d’anni di dedicarsi alla scrittura in prima persona. A ottobre 2019 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, un thriller-horror dal titolo «Le grida nel cuore», con la Brè Edizioni di Treviso. A dicembre 2019 ha pubblicato un racconto dal titolo «Sumo» sul numero 7 della rivista «Il Buio, rivista dark», finalista al Premio Italia come rivista professionale.

Oltre a «Le grida nel cuore», ha già completato la stesura di altri due romanzi sempre di narrativa fantastica, intitolati «La terza era» e «Il viaggio di Orso», ed è attualmente al lavoro su una quarta opera.

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