Tornare in Sardegna, anche solo con la fantasia e con il ricordo, è una delle cose che amo di più. È per questo che ogni volta che scopro dell’uscita di un romanzo ambientato nella mia terra non riesco a fare a meno di leggerlo. Sapere che le parole che ho davanti sono dedicate alla terra che amo rende sempre la lettura un’esperienza migliore. Ed è con lo stesso approccio un po’ sognante che mi sono imbarcata nella lettura di Nàccheras di Ilenia Zedda, il protagonista di questa nuova recensione.
Trama
Ci troviamo a Cala dei Mori, un piccolo borgo sulla costa sarda. Qui risiede il Maestro, una donna che molti chiamano strega ma di cui solo alcuni conoscono il reale valore. Lei è la custode di una conoscenza antica, quella del bisso, il dono del madre. E Caterina, sua nipote, è la sua unica allieva.
Sulla soglia dell’adolescenza, Caterina è alle prese con i problemi di tutte le tredicenni, ma non solo. Ciò che il Maestro si aspetta da lei è infatti una grande responsabilità spirituale, e Caterina teme di non essere pronta. Anche se sa già che il mare è la sua anima e il suo destino.
Accanto alla storia di Caterina si snoda quella di Francesco, anche lui appena tredicenne. Dove lei è mare, lui è terra; dove lei è anima lui è tutto corpo, energia e calore. Le loro vite sono intrecciate, come intrecciati sono mare e terra della Sardegna. E insieme, Caterina e Francesco impareranno che la vita adulta non si può rimandare, ma occorre abbracciarla e farla propria per viverla intensamente.
Recensione Nàccheras di Ilenia Zedda
È sempre difficile esprimere a parole il perché un libro non sia riuscito a entrarci dentro. Nel mio caso, è ancor più difficile perché io stessa fatico a trovarne i motivi. Nàccheras possedeva infatti tutti gli elementi giusti. Parlava della Sardegna e lo faceva con amore; e come avete capito, questo è già per me un dettaglio vincente. Inoltre si trascinava dietro un immaginario e un misticismo attraenti, legati al bisso e alle affascinanti leggende sulla seta del mare. E poi si presentava sfumato di quelle tinte rurali e un po’ decadenti alla Arminuta, libro che ho amato e che è stato capace di stupirmi in più di un senso.
Eppure, in qualche modo, con Nàccheras qualcosa per me non ha funzionato. Nel sondare la mia mente alla ricerca della spiegazione di questo miscuglio di sensazioni confuse, sono arrivata a una prima ipotesi. Qualcosa che, se non assolve del tutto il compito di motivare la mia delusione, in parte la chiarisce. O almeno così spero.
Quando lo stile soverchia la storia
Nàccheras mi appare, a tutti gli effetti, come uno di quei romanzi così ben fatti che alla fine ti sembra che a comandare sia la forma e non la sostanza. Ilenia Zedda sa scrivere, e lo sa fare davvero molto bene. Ma forse è proprio qui che sta il problema, l’ostacolo che mi ha impedito di fare mia questa storia. Tutto, in Nàccheras, mi è parso infatti studiato all’estremo. Gli eventi accadono secondo uno schema preciso, si snodano uno dopo l’altro senza nemmeno un’imperfezione di costruzione; e sono impacchettati in una forma bella, ricca e ben ricamata, che colpisce lo sguardo e al principio ti fa dire: “accidenti, che belle parole, che belle frasi. Un modo davvero ricco di descrivere questa sensazione”.
Ma poi vai avanti con la lettura e hai sempre più l’impressione che manchi qualcosa. E più le pagine scorrono e le vicende si dipanano, più ti rendi conto che a mancarti è lo spessore dei personaggi, la possibilità di sentirli vivi, di percepirli respirare attraverso la carta. Non riesci a sentire davvero l’aria pesante del borgo, né il timore reverenziale che i suoi abitanti mostrano nei confronti della miniera che li sfama da generazioni. Sono lì, ti vengono raccontati, ma tu non li senti tuoi.
Leggere attraverso un vetro
È come se, nella sua estrema minuzia e precisione, Nàccheras fosse un romanzo asettico. Ogni emozione viene sviscerata attraverso metafore profonde e bellissime, ogni paura è raccontata con dovizia e con intensità. Eppure in qualche modo fatichi lo stesso a sentirle come reali. Sono troppo, troppo curate, troppo dettagliate per essere le tue.
E così, Caterina e Francesco rimangono degli estranei fino alla fine del racconto. Li vedi muoversi, avvicinarsi, confrontarsi e completarsi, ma non riesci a emozionarti con loro. Un po’ come se tra te e le loro vicende ci fosse un vetro, attraverso il quale riesci a vedere tutto ma il resto dei sensi rimane bloccato.
E non so se sono in grado di dirvi quanto dispiacerebbe mi abbia provocato questa cosa. Perché desideravo con tutta me stessa calarmi in questa storia. Desideravo sentirmi partecipe della storia di Caterina e Francesco, trovare in loro delle anime affine. Tutto quello che mi è rimasto in mano, alla fine della lettura, è una storia che fatico a rammentare. Mi sono rimasti i contorni, certo, alcune di quelle frasi si sono proprio impresse nella mia mente. Ma il cuore delle vicende, l’anima di questo racconto… ecco, quella mi è sfuggita dalle dita appena ho voltato l’ultima pagina.
Il bello dei libri è che non trasmettono mai la stessa cosa a tutti i lettori. E sono certa che Nàccheras abbia trovato, in qualcuno di voi, la giusta anima con la quale risuonare. Forse io non ero la persona giusta, ma se voi lo siete stati, vi invito a scrivermi per raccontarmi cosa avete provato. Sono curiosa di entrare nelle vostre menti e scoprire altre impressioni su questo romanzo.
Ringrazio infine la Dea Planeta Libri per la copia digitlae di Nàccheras, e per avermi dato modo di scrivere per voi questa recensione.