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Recensione “Le sette morti di Evelyn Hardcastle” di Stuart Turton

Ci sono volte in cui parlare di una recente lettura è facile quasi quanto affrontarla. Mi siedo davanti alla pagina bianca e lascio che il flusso di pensieri ed emozioni suscitato dall’ultimo romanzo defluisca dalla mente alle dita, in un’ordinata sequenza di caratteri spontanei. Non so nemmeno bene come avvenga, ma quando succede sento che il filo delle mie impressioni si è depositato proprio come speravo, dando senso e corpo al libro che l’ha originato.
Altre volte, però, il processo non è affatto così lineare e contemplo per ore la pagina vuota chiedendomi quale sia la chiave giusta per sbloccare quel filo di impressioni, quali le parole adatte per narrare a voi che mi leggete una lettura capace di smuovermi come capita di rado.

Le Sette Morti di Evelyn Hardcastle appartiene a quest’ultima categoria. Non sembra esserci un punto giusto dal quale iniziare per raccontare questo romanzo e ancora devo comprendere dove andrà questo flusso di pensiero. È come se l’idea del romanzo fosse una massa informe nella mia mente, contorta e poco incline e prendere un aspetto definito. Con l’esperienza, ho capito però che l’unico modo di comprendere a fondo una lettura, per me, è iniziare a narrarla e per farlo in questo caso comincio dal momento apparentemente più scontato, ovvero il principio, sperando che lungo il percorso attraverso le pagine emergano tutti quei dettagli che sento ancora risuonare nella testa a fine lettura.

Stuart Turton ci cala in una foresta, al fianco di un uomo che non ricorda né chi sia né come sia arrivato lì.
È notte, l’uomo è ferito, stordito e spaventato. Con sé ha solo un nome, Anna, e la certezza che sia importante. Ode uno sparo, vede qualcuno che corre e sente invocare aiuto, e la paura si impossessa di lui e ci travolge. Il suo punto di vista è il nostro unico compagno e ci accompagna a fatica fuori dall’oscurità verdeggiante fino a Blackheat House, una magione di campagna decadente nella quale finalmente l’uomo ottiene le prime risposte: è nel corpo di Sebastian Bell, uno degli invitati al ballo indetto da Lady e Lord Hardcastle per celebrare il ritorno della figlia, Evelyn. Ma la festa si rivela ben presto il luogo di un delitto e Bell solo una delle otto incarnazioni nelle quali la nostra misteriosa voce narrante verrà calata.

Perché, come ben presto scoprirà il protagonista e noi con lui, la giornata è destinata a ripetersi ancora e ancora, finché lui non sarà in grado di scoprire chi ha ucciso Evelyn Hardcastle.
Dentro Le Sette Morti di Evelyn Hardcastle, abbiamo l’impressione di vivere una cena con delitto che non termina alla fine della serata, e che si ripete strettamente uguale giorno dopo giorno, intrappolandoci al suo interno al fianco dei personaggi coinvolti.

Man mano che i tasselli del disegno di Blackheat House iniziano a disporsi in fila, infatti, per il nostro protagonista comincia un’indagine folle e disperata tra i meandri di una villa che ha molte più ombre di quelle materiali. Nessuno ha Blackheat House è davvero innocente e nessuno può dirsi immacolato; tutti custodiscono dei segreti e starà al nostro narratore svelare uno dopo l’altro tutti i peccati che gonfiano le pareti della villa.
Tra le pagine, passato e presente si intrecciano di continuo e la morte di Evelyn sembra affondare le sue radici molto in profondità, in un evento antico che nessuno nella magione potrebbe mai dimenticare.

Le Sette Morti di Evelyn Harcastle è stato definito un romanzo ibrido tra i migliori gialli alla Agatha Christie, la disturbante serie di Black Mirror e Inception e non stento a comprenderne la ragione. Come nello splendido film di Nolan, ad esempio, la realtà sfuma e si contorce davanti ai nostri occhi, sogno e illusione si intrecciano per confonderci, aiutati da una prima persona che esalta la sensazione di spaesamento del protagonista e nostra di conseguenza. Ma qui i dettagli pian piano si stagliano nitidi nella nebbia, rivelando un mosaico raffinato e complesso degno della regina del giallo. La verità che scorre tra le pagine è labile, il confine tra realtà e immaginazione si sposta di continuo, ma la presa di Stuart Turton sulla trama e sui personaggi resta salda. Più il mistero si infittisce, più i tasselli vanno ognuno al loro posto, rivelando uno studio maniacale e quasi esasperato dei dettagli. Nulla è casuale, ogni frase e particolare presentato trovano un senso andando avanti attraverso le incarnazioni.
È impossibile non rimanere travolti da questo romanzo.

Prima di salutarvi e lasciarvi gli ultimi dettagli del romanzo, approfitto di questo spazio per ringraziare la Neri Pozza per avermi dato modo di leggere Le Sette Morti di Evelyn Hardcastle.

Trama:
Blackheath House è una maestosa residenza di campagna cinta da migliaia di acri di foresta, una tenuta enorme che, nelle sue sale dagli stucchi sbrecciati dal tempo, è pronta ad accogliere gli invitati al ballo in maschera indetto da Lord Peter e Lady Helena Hardcastle. Gli ospiti sono membri dell’alta società, ufficiali, banchieri, medici ai quali è ben nota la tenuta degli Hardcastle. Diciannove anni prima erano tutti presenti al ricevimento in cui un tragico evento – la morte del giovane Thomas Hardcastle – ha segnato la storia della famiglia e della loro residenza, condannando entrambe a un inesorabile declino. Ora sono accorsi attratti dalla singolare circostanza di ritrovarsi di nuovo insieme, dalle sorprese promesse da Lord Peter per la serata, dai costumi bizzarri da indossare, dai fuochi d’artificio.
Alle undici della sera, tuttavia, la morte torna a gettare i suoi dadi a Blackheath House. Nell’attimo in cui esplodono nell’aria i preannunciati fuochi d’artificio, Evelyn, la giovane e bella figlia di Lord Peter e Lady Helena, scivola lentamente nell’acqua del laghetto che orna il giardino antistante la casa. Morta, per un colpo di pistola al ventre…

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.