Il primo articolo, dopo una novità della portata di un rinnovo completo del sito, solitamente è la prima perla, il marchio distintivo, il dessert succulento dopo il lancio dei fuochi d’artificio, che accompagna lo spumante dolce e frizzante versato per celebrare.
L’occasione, anche qui su Chiacchiere Letterarie, avrebbe meritato una recensione entusiasta, o magari, perché no, una stroncatura con in fiocchi (o ancor meglio, una critica a un genere nella sua totalità e ai suoi lettori, visto che oggi sembra andare particolarmente di moda).
Come potrete notare dal titolo però, questa non è una recensione, bensì è una riflessione che cova dentro di me da mesi e aspettava solo il momento giusto per emergere.
A quanto pare un nuovo inizio è proprio il momento perfetto, e dunque eccoci qui.
Alcuni di voi già lo sapranno, ma per tutti gli altri, la mia esperienza come blogger comincia nel Novembre del 2014, in quel magico momento quasi casuale nel quale io e Valentina abbiamo dato vita a questo angolino letterario. Non vi nascondo che all’inizio questa nuova esperienza un po’ mi spaventava, ma nel corso di questi tre anni e mezzo mi sono calata sempre più nel ruolo di recensore, imparando pian piano ad approcciare ogni nuovo romanzo con il giusto spirito critico, per estrapolare dall’esperienza di lettura un pensiero che fosse utile ai possibili nuovi lettori dell’opera.
Raramente però, da recensore, ho lasciato che il mio pensiero si soffermasse troppo a misurare il carico emotivo delle recensioni che scrivevo.
Scrivevo per me stessa, e per i lettori che seguivano il blog, convinta che l’educazione e la sincerità fossero sufficienti a rendere giuste e accettabili le mie parole.
Eppure, solo di recente mi è capitato di trovarmi dall’altra parte della barricata, e di fermarmi dunque a riflettere su cosa realmente significhi ricevere una recensione.
Per permettervi di comprendere a fondo il mio punto di vista, devo fare un piccolo salto indietro e portarvi con me al giugno dell’anno scorso. Ebbene, se veniste con me in quel di Pisa, all’inizio dei mesi estivi del 2017, trovereste una blogger, amante dei libri e della narrativa fantastica, che fissa una pagina bianca di word, consapevole – o forse non ancora del tutto – di essere sulla soglia di un viaggio incredibile, capace di mutare radicalmente molte delle sue convinzioni.
Da quel giorno sono passati più di un anno, una quantità di eventi più o meno segnanti, ma soprattutto, 772134 caratteri che hanno sancito un abisso di distanza tra quella stessa ragazza e questa che vi sta parlando ora. Ho vissuto un’esperienza unica, in questi ultimi mesi, e Wattpad e la sua community sono i maggiori responsabili di tutto questo.
Arrivata a questo fatidico anno dopo, con una storia conclusa e interamente a disposizione dei lettori e dei recensori, non posso che constatare quanto questa prima esperienza di scrittura sia stata per me un punto di svolta, un prima e un dopo indelebile che coinvolge molti aspetti della mia vita, tra i quali, invariabilmente, anche quello delle recensioni.
È innegabile, infatti, quanto possa cambiare il proprio rapporto con le critiche letterarie quando si è in prima fila a riceverle. Per la prima volta da quando scrivo sul web, in questi mesi è stato qualcosa di mio ad essere soppesato e analizzato, e sono stati altri lettori a tirar fuori le loro impressioni sul mio operato.
E vi assicuro che non è un’esperienza da poco, specie se si è sempre stati dalla loro parte fino a quel momento.
Ovviamente, come forse immaginerete, non tutte le critiche che sono arrivate alla mia creazione sono state positive (e forse alcuni tra voi si staranno già chiedendo se ci troveremmo qui, a parlare di recensioni dall’altra parte, se questo non fosse avvenuto), eppure ce n’è stata una in particolare, su tutte quante, che ha generato per prima il seme che poi è cresciuto e fiorito in questo post.
Parliamo di una recensione che ormai ha diversi mesi dietro di sé, un tempo piuttosto lungo in cui ho elaborato, assimilato (e sì, un po’ anche pianto, perché spesso è la reazione più naturale) e infine creato la struttura di un ragionamento più ampio, che parte sì da me e dalla mia esperienza personale, ma si sviluppa in un’analisi ben più generale e, spero, utile anche ad altri.
Il fulcro di tutta questa lunga premessa, e di questo post nella sua interezza, è questo:
Pensiamo mai, realmente, al fatto che dietro quelle pagine che ci hanno dato fastidio, dietro quella storia che ci è sembrata banale, o mal scritta, potrebbe esserci un sognatore che a quelle pagine ha affidato se stesso?
Ci fermiamo mai a riflettere sul tempo speso, sul sudore, sulla fatica, sull’orgoglio, sulle speranze che ha investito in quello che ha creato?
E se la risposta a queste domande è no, se i primi pensieri che ci vengono in mente quando qualcuno ci chiede una cosa del genere sono “sì, ma forse avrebbe dovuto scrivere meglio, poteva lavorarci di più, si vede che lo ha fatto solo per il denaro, e così via”, non è che forse, sotto sotto, siamo noi a sbagliare per primi?
Noi lettori, recensori, critici letterari, viviamo spesso chiusi in una piccola campana di vetro personale.
Prendiamo in mano un libro, lo leggiamo pretendendo di comprenderne a fondo il senso, il significato, lo scopo, il valore, e quando non troviamo una o nessuna di queste cose ci arrabbiamo o, caso ancora peggiore, gridiamo al miracolo, perché abbiamo trovato materiale per una nuova stroncatura che avrà successo, che attirerà l’attenzione, che magari ci procurerà nuovi lettori e perché no, che forse ci ammanterà anche di un’aria di invincibilità e competenza. D’altronde, in quel caso potremmo dire di essere quelli che hanno trovato la pecca, che non si sono fatti abbindolare dalla bella copertina, dal marketing spietato della casa editrice, dal tentativo insulso di raggirarci di un produttore di parole a raffica che ha l’unico scopo palese di portare a casa la pagnotta.
Ci sentiamo un po’ i vincitori, non pensate?
Però ditemi, quanti di noi, davanti a un libro che abbiamo odiato, che non abbiamo compreso, che si è rivelato diverso da ciò che pensavamo fosse, si sono fermati a pensare, almeno una volta, che forse, sotto sotto, potevamo anche essere noi il problema? Quanti di noi hanno rivolto un pensiero all’altro, alla persona nascosta tra quei segni che tanto ci hanno dato fastidio?
Io, devo ammetterlo, prima di diventare apprendista della scrittura e di mettermi in gioco, non l’ho fatto molto spesso.
Spesso, infatti, noi lettori dimentichiamo che un libro, di per sé, non è che il veicolo di un messaggio e di un’emozione, il tramite tra un’esperienza vissuta o solo immaginata dallo scrittore, e i lettori che la possano ricevere, e far loro.
Un libro, come vettore di una comunicazione, non può che richiedere sempre due elementi: mittente e destinatario.
E se fallisce, il problema potrebbe stare a monte, come a valle.
Quando un libro non ci soddisfa, abbiamo quasi sempre la tendenza ad addittare lo scrittore come principale colpevole, ci avete mai fatto caso?
“È lui che non sa scrivere, lui che scrive un messaggio non piacevole, lui che non si impegna, che non lo sa fare, che non ha nulla da dire” e così via.
Ma pensiamo mai che forse, e dico forse, anche noi potremmo avere la n0stra parte di colpa? Che potremmo, ad esempio, non essere i destinatari giusti per quel romanzo che tanto ci ha dato fastidio? Che forse lo scrittore ci ha davvero messo dentro tutto se stesso, ha coltivato un sogno, ha creato un universo personale nel quale ama vivere e che potrebbe piacere a tanti altri, ma che semplicemente quel libro non è adatto a noi?
Eppure, la nostra prima reazione, spontanea, è di rimpiangere il tempo sprecato invano in una lettura che non ci è piaciuta.
La seconda, per molti di noi, è di elaborare una recensione negativa (mentale o scritta, poco cambia), spesso scatenata dalla prima reazione.
Parlo da lettrice certo, ma non posso che parlare anche da scrittrice, alla quale sono state rivolte le stesse critiche che spesso, io stessa, ho rivolto ad altri scrittori.
“Il libro non comunica quello che dovrebbe”
“Non corrisponde a ciò che ci si aspetterebbe da un testo di questo genere”
“Non c’è abbastana introspezione, o descrizione, o narrazione, o qualunque altra cosa, fa lo stesso”
In generale, non è abbastanza.
Non è ciò che il lettore voleva.
Ma è davvero solo colpa dello scrittore?
All’inizio, subito dopo aver ricevuto quella fatidica recensione, e anche per le settimane successive, il mio istinto è stato quello di rispondere che sì, la colpa era mia, e di nessun altro.
Il libro non funzionava, non trasmetteva ciò che doveva, non coinvolgeva, non andava bene.
Andava cambiato, riscritto addirittura, ricreato da zero.
E tanto valeva, forse, lasciar perdere direttamente, che se non sei buona allora è meglio che trovi qualche altra passione da coltivare, che ti si addica di più.
Poi, quando la tristezza e lo sconforto sono scemati, qualcos’altro ha iniziato ad emergere.
Sotto tutta quella dose di autoanalisi, una voce prima timida e poi sempre più decisa ha fatto capolino. E ha iniziato a farmi notare che forse quel lettore non ha trovato le cose che cercava perché non facevano parte del mio messaggio. Non si è trovato a suo agio, perché il mondo, tutto sommato, non era fatto a sua immagine e somiglianza.
Perché lo era fatto a mia.
E magari a quella degli altri che, prima e dopo di lui, hanno colto ciò che volevo trasmettere.
Da questa piccola consapevolezza ne è nata un’altra, ancora più grande.
Quante volte io stessa, da lettrice, ho fatto le sue stesse considerazioni? Quante volte ho dato per scontato che l’autore avesse sbagliato perché la trama non andava dove sarebbe dovuta andare, perché l’ambientazione non rispondeva a certi canoni che ritenevo pilastri, ma che poi sotto sotto non erano che la mia personale visione della letteratura, e dei libri nel loro insieme?
E insieme alla consapevolezza è arrivata una certezza: che avrei fatto di tutto, da quel momento in poi, per evitare che un altro scrittore, chiunque lui fosse e qualunque cosa avesse scritto, davanti a una mia recensione si sentisse come mi ero sentita io davanti alla sua.
Ho realizzato che esprimere il proprio parere è sicuramente un diritto, una libertà splendida, una possibilità immensa.
Ma questo non dà a noi diritto di far del male agli altri.
Non ci dà il permesso di dire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato e, soprattutto, chi sia giusto e chi sia sbagliato.
C’è una linea sottile, eppure essenziale, tra libertà di pensiero e arroganza.
E ho intenzione di tenerlo bene a mente, d’ora in poi.
Ho dovuto scottarmi in prima persona per comprendere una cosa così semplice. Eppure, con il senno di poi, sono grata a quel recensore per avermi permesso di aprire gli occhi.
Spero che un giorno qualcuno gli regali la stessa possibilità.