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Recensione Stranieri su un molo di Tash Aw


È passato qualche giorno dalla fine della lettura di Stranieri su un molo, e nonostante in questi giorni io abbia continuato a rimuginarci sopra, ancora fatico a stabilire quali siano le parole giuste per raccontarvi questo testo. Non perché si tratti di un saggio particolarmente complesso, né perché mi trovi davanti un testo dal forte peso emotivo, anzi tutt'altro: Stranieri su un molo è un racconto sì molto intimo e personale, ma che si presenta come una piacevole chiacchierata con un amico davanti ad un caffé, un viaggio nelle sue memorie e nel suo passato affrontato con grande semplicità e spontaneità.
Eppure se a posteriori mi fermo a riflettere su ciò che ho letto e appreso, trovo difficile ordinare i diversi segmenti di conoscenza che ho assorbito, come se in realtà ciascuno di essi nella mia mente si fosse esteso e fuso agli altri, rivelandosi a poco a poco come una retta, infinita ai suoi capi, agganciata al passato e decisa a scorrere fino al futuro; una retta che comincia ben prima dell'esistenza dell'autore, che ha percorso le vite dei suoi nonni – emigrati dalla Cina alla Malesia- quelle dei suoi genitori, i primi figli degli immigrati, i primi a dover affrontare il peso della duplice appartenenza, lo sdoppiamento tra le tradizioni passate e quelle presenti, e che infine giunge fino a Tash Aw e ai suoi coetanei, la terza generazione, i nipoti che del passato non ricordano nulla e conoscono quasi niente; avvinti dai contesti moderni in cui crescono, immersi nell'occidentalizzazione spietata che li ha travolti, i nipoti crescono perdendo anche i pochi segni che li distinguevano come figli dei figli di immigrati, si uniformano perdendo le loro peculiarità territoriali, o spesso senza averle mai nemmeno conosciute.

A volte però, come nel caso di Aw, arrivati ad oltre trent'anni, realizzati e affermati, si voltano indietro sentendosi incompleti, ed è in questo momento che quella retta che aveva attraversato i loro predecessori li richiama a sé, li riporta a stretto contatto con quelle radici che erano convinti di aver perduto. E se tra loro c'è un bravo narratore, come Aw, ecco che la loro ricerca, il loro tentativo di ricostruire quelle radici ormai sbiadite diventa un'ottima occasione per raccontare anche ad altri il proprio passato, e cosa ancor più importante, la storia di un'epoca e delle persone che l'hanno vissuta.
Così la nostra storia comincia all'inizio degli anni Venti, poco dopo la prima Grande Guerra, quando i suoi nonni lasciano la sicura povertà della loro esistenza in Cina per imbarcarsi verso l'ignoto: la loro meta è la Malesia, una terra carica di promesse e aspettative; qui i nonni di Aw riusciranno a stabilirsi, e attraverso grosse fatiche – d'integrazione, lavorative, linguistiche – saranno in grado di ripartire, permettendo ai loro figli, i genitori di Aw, di crescere ed incontrarsi, per poi stabilirsi a Kuala Lumpur e garantire al loro figlio di studiare prima in Malesia, e poi nell'ambìto Occidente, sognato e dipinto come la terra della realizzazione.

Aw cresce dunque nella più grande città della Malesia degli anni 80, in pieno periodo di rivoluzione culturale: la sua vita è segnata e caratterizzata dalla strenua lotta tra il moderno che avanza, quella globalizzazione portatrice di innovazioni ma anche di omologazione, e l'antico che fatica a resistere, mostrandosi nel parlato dei ragazzi di strada, nelle tradizioni e nelle superstizioni che faticano ad essere dimenticate, nei giochi e nei canti; è la scuola il primo vero posto dove le due entità si scontrano, e dove anno dopo anno il moderno ha la meglio, imponendosi con tutte le sue spietate leggi e scalfendo il simulacro dell'antico, il custode incarnato nella famiglia, che cerca di trattenere e conservare gli aspetti più cari alla tradizione. Aw cresce quindi diviso a metà, due lati che faticano a convivere, in una lotta interiore che inevitabilmente penderà verso il moderno e dunque l'omologato.

È grazie al simulacro rappresentato dalla famiglia però, che nel racconto prende le forme del padre di Aw – che in un prezioso e raro momento di confidenza rivela alcuni aspetti della sua gioventù – che l'autore inizia a ricostruire le sue radici, a rimettere in ordine le storie di coloro che le hanno costituite, e che hanno contribuito a fare di Tash Aw quello che è: nipote di immigrati della Cina del sud, figlio di figli di immigrati che a casa fra loro parlavano il dialetto della provincia di Fujian con accento e lessico malesi di Penang, con i figli il mandarino, con i fratelli paterni l'hainese e con quelli materni una fusione di hokkien e cantonese; un misto dunque, un'entità frammentata composta di tanti piccoli tasselli che il moderno ha cercato di appianare, ma che difficilmente vengono fusi del tutto; così, anche se a scuola Aw ha imparato a parlare un mandarino impeccabile, e poi in America ha appreso un inglese quasi madrelingua, in entrambi si percepiscono ancora le sfumature di quella mescolanza di lingue diverse, che rappresentano tutte quelle peculiarità che nonostante tutto continuano a distinguerci l'uno dall'altro.

Alla fine della narrazione, e dall'intervista a fine del volume rilasciata dall'autore all'edizione italiana, è ben chiaro quale sia lo scopo di questo testo: sebbene esso sia infatti un racconto sulle origini e la storia di Aw, la storia della sua famiglia e della sua terra, Stranieri su un molo vuole essere anche una sorta di memorandum per chi lo legge: un inno alle diversità e peculiarità che ci contraddistinguono, un monito sull'importanza dell'accettare l'altro non perché ha cancellato ciò che lo differenziava diventando uguale a noi, e dunque familiare, ma proprio perché fa delle sue differenze una sua qualità e dunque un suo punto di forza. Un compito molto complesso, che spesso aggiriamo cercando di vedere nell'altro parti di noi stessi, cercando di renderlo familiare, anziché accettarne ogni aspetto come diverso e dunque interessante ed importante.
Credo che sia proprio questo punto del discorso, il nucleo focale di questo saggio, ad aver reso complessa la realizzazione di questa recensione: portarvi con me attraverso i passaggi in cui si snoda Stranieri su un molo, fino ad arrivare al suo messaggio più importante, è stata un'impresa ardua, che spero di aver compiuto al meglio delle mie possibilità. Ora non vi resta che permettere a Tash Aw di guidarvi lungo questo viaggio e lasciare che siano le sue parole a farvi filtrare questo messaggio; sono sicura che saprà regalare anche a voi la bellissima esperienza che è stato in grado di donare a me.


Un sincero ringraziamento, colmo di gratitudine, va alla Add Editore e ad Enea, il loro addetto all'ufficio stampa, non solo per avermi dato la possibilità di leggere Straniere su un molo, ma anche e soprattutto per avermene consigliato la lettura: non conoscevo questo testo, e non posso che essere felice di essermi fidata delle loro parole e di avergli dato una possibilità.

Trama:
In questo breve saggio, Tash Aw accompagna il lettore in un tour guidato del proprio terreno più intimo: la sua faccia. La vitalità culturale dell'Asia moderna è riflessa nel suo stesso volto, il tono cangiante della sua pelle e i suoi lineamenti riflettono una complicata storia familiare fatta di migrazione e adattamento. Gli stranieri, smarriti su un molo, sono i nonni dopo l’insidioso viaggio in barca per fuggire dalla Cina verso la Malesia negli anni Venti. Dal porto di Singapore, a una corsa in taxi nella Bangkok di oggi, a un’abbuffata da Kentucky Fried Chicken nella Kuala Lumpur degli anni Ottanta, Aw tesse storie di inclusione ed esclusione, tra scenari che saltano da villaggi rurali a club notturni e una varietà vertiginosa di lingue, dialetti e slang, per creare un ritratto sorprendentemente intricato e vivido di un luogo stretto tra il futuro in rapido avvicinamento e un passato che non si lascia andare.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.