Il vento soffia da est adesso, e porta con sé l’odore di marcio e stantio che questo triste Mondo esala continuamente. Tra le note di putride paludi e di foreste marcescenti, percepisco a stento la traccia che sto seguendo da stamattina. Eppure so con certezza che il mio Staver sta continuando la sua lenta marcia verso le grigie colline ad est, in cerca di qualche giovane ed esile germoglio da fagocitare per sostituire la solita sabbia che troverebbe giù a valle. Sono animali così prevedibili certe volte, così facili da braccare, che quasi non c’è gusto a lanciarsi in caccia dietro di loro; dico quasi, ovviamente, perché sarei una stolta se non considerassi che si tratta praticamente di sacche di bionn che camminano, lente e facili da uccidere. Un colpo alla testa, ed improvvisamente hai di che coprirti e di che mangiare per oltre una settimana.
Quasi non riuscivo a credere ai miei occhi quando stamattina ho trovato le sue tracce, un’unica fila solitaria che costeggiava i margini della foresta e puntava dritta verso la triste prateria su ad est; solitamente è difficile non vederli in branco, ma questo deve essersi perso, o allontanato dal resto del gruppo per una qualche forma di spietata sopravvivenza, alla ricerca delle poche risorse rimaste da non dover spartire con gli altri membri del branco. Chissà, se potesse pensare forse tra qualche minuto potrebbe rimpiangere la sua folle idea di separarsi dal caldo ventre del branco, per finire in perfetta linea di tiro con il mio arco. Ma per fortuna non è in grado di elaborare un simile pensiero, e continua la sua marcia con me alle calcagna, mentre il sole pallido e freddo prosegue la sua parabola verso il punto più alto, irraggiando a stento le dune sottostanti, le contorte foreste e le pozze verdastre che puntellano il terreno.
Come ogni abitante di questo nuovo e folle mondo, ciò che so sul mondo di prima è scarso e frammentario; mai avevo ipotizzato che il sole potesse un tempo riscaldarti in modo quasi piacevole, o che le foreste potessero distendersi brillanti e vitali in un cielo limpido e ceruleo. Eppure ieri sera, dopo aver giaciuto con uno degli avventurieri giunti al villaggio, Rob mi pare, o forse Frank, non è importante, invece del solito dono di pelle, o di qualche munizione, ho ricevuto in cambio la possibilità di scoprire di più su com’era il mondo prima. Aveva con sé un libro, forse il meglio tenuto che mi sia capitato sott’occhio fino ad ora, e grazie a lui ho scoperto la natura antica che solcava il mondo quando la follia umana non si era ancora abbattuta sui di lui.
Per mia fortuna so leggere fin da quando ero bambina, papà era fermamente convinto che saper leggere e scrivere mi avrebbe sempre dato un vantaggio in molti aspetti della vita, dal commercio, ai rapporti con le altre persone dell’insediamento. D’altronde, se sai leggere e scrivere e hai fortuna, puoi essere visto come una sorta di mago, o almeno questo è quello che mi diceva per affascinarmi e convincermi a studiare. Avevamo dei vecchi libri a casa, qualche fiaba sbiadita e oscura, alcuni antichi bestiari provenienti dal vecchio mondo, resoconti incompleti e misteriosi sull’apocalisse; papà era un cacciatore non solo di animali ma anche di storie. Capitava spesso che scambiasse pelli e carni con nuovi libri, e nel nostro vecchio villaggio era conosciuto come l’uomo folle, che vendeva beni preziosi in cambio di carta inutilizzabile.
Quando è morto e sono dovuta andar via, l’unica cosa che ho potuto portare con me è stato il suo bestiario, il taccuino che portava ovunque, e in cui appuntava tutti i dettagli sulla caccia delle specie che ha incontrato nella sua vita. Ho dovuto lasciare il resto, troppo pesante per essere trasportato da una sola persona, soprattutto se giovane ed esile com’ero a sedici anni, e una parte del mio cuore è rimasta lì in quella casa storta e sporca dove ho vissuto alcuni degli anni più felici della mia vita. Ma non potevo restare, non sola ed indifesa in un villaggio composto in maggioranza di uomini affamati di gioventù. Ancora non avevo imparato a sfruttare il mio corpo, ad esserne pienamente padrona. Sono serviti i primi mesi di cacce fallite e fame per farmi capire finalmente di avere un bene prezioso e richiesto con me, qualcosa che mi avrebbe garantito sempre di sfamarmi e coprirmi.
Ho iniziato così a giacere con gli avventurieri che giungevano negli insediamenti in cui arrivavo anch’io, e a poco a poco ho iniziato ad apprezzare quelle notti sudate e complici nelle stanze più squallide dei bar. Sicuramente la mia particolarità mi ha aiutata ad apprezzare questa vita; il mio “piccolo dono”, come lo chiamava papà.
I primi passi con le loro cadute, i primi dentini, le febbri che agli altri strappavano gemiti e tormenti, su di me non hanno mai suscitato neanche una lacrima. Potevo e posso tutt’oggi strisciare tra le fronde contorte senza sentire le fitte dei loro tagli sulla pelle, vedere il sangue che scorre senza provare il dolore pungente che provano gli altri. Posso correre senza sentire le ginocchia cedere, o almeno senza che mi avvisino che stanno per farlo, e le percosse creano solo pallidi lividi sulla mia pelle, senza che alcuna scossa giunga fino al mio cervello.
È facilmente comprensibile quindi come questo dono mi abbia aiutata nei primi anni della mia folle vita di orfana, sostituendo quello che per altre è dolore, con folle e puro piacere.
Lo stesso il cui ricordo è vivo in me questa mattina, insieme alle informazioni che ho scoperto grazie all’avventuriero della scorsa notte. Un nuovo dettaglio sul vecchio mondo, un nuovo prezioso frammento di memoria che per chiunque altro risulterebbe inutile, ma che per me vale il prezzo di una giornata intera di caccia. Non conta quello che ho lasciato indietro in quella casa, se riesco a trovare di più nei miei viaggi; continuo quindi ad aggiornare il bestiario di papà, e a collezionare storie come faceva lui, appuntandole quando possibile, o conservandole altrimenti tra le pieghe della mia memoria, nel posto più sicuro ed impenetrabile che conosco.
Nuove tracce mi distolgono dai numerosi pensieri che hanno occupato la mia mente fino ad ora, e io torno all’improvviso nei panni della cacciatrice che sono diventata, e riprendo la mia corsa tra le fronde, fino ad emergere nella prateria che cercavo.
Ed eccolo lì, davanti a me, lo Staver che mi ha condotta fin qui. Azzanna lentamente i piccoli germogli sul terreno, li rumina piano, mentre scruta con circospezione davanti a sé, attento ai pericoli che possono giungere da davanti. Non mi ha sentita arrivare, è troppo distante e il vento soffia a mio favore, nascondendogli il mio odore, e riempiendo le mie narici del tanfo del suo pelo sporco ed intricato.
Ho un’unica possibilità ora, e so che non posso lasciarmela scappare: si trova a circa trenta metri da me, al limite quasi delle mie possibilità, e non posso sbagliare questo tiro. Slaccio l’arco dalle spalle, incocco, e tendo la corda. Se la freccia gli passerà vicina senza prenderlo, lo Staver scapperà verso la prateria, e io dovrò riprendere la corsa, questa volta in campo aperto, rischiando di passare da predatore a preda. Se lo colpisco sulla folta pelliccia, la punta potrebbe non trapassarla e rimbalzare o ancora peggio, potrebbe entrare quel tanto che basta per irritarlo e spingerlo a caricarmi a testa bassa, e allora sarei io a dover scappare dalla sue letali corna. L’unico tiro che mi è concesso è al centro della testa, dritto in mezzo alle corna, l’unico punto debole dell’animale. Un tiro complesso per un cacciatore inesperto, ma per mia fortuna l’insegnamento di papà non riguardava solo le parole. Prendo un respiro profondo sento il battito del mio cuore rallentare, fino a sembrare quasi fermo; a questo punto lascio la corda, un istante prima che la pressione faccia tremare il mio braccio, e osservo la perfetta traiettoria della freccia, che con un arco attraversa la pianura e penetra violentemente nella parte scoperta della sua pelle. L’animale geme e si accascia sotto i pallidi raggi di sole, mentre il germoglio quasi del tutto mangiucchiato pare sospirare di sollievo.
Questa sera festeggerò e forse riuscirò a guadagnarmi qualche altra storia da aggiungere alla mia personale collezione.
Come succede spesso nella vita di un giocatore di ruolo, in questi giorni mi sono trovata a creare un nuovo personaggio per una nuova campagna appena iniziata. Fino ad ora avevo sempre giocato solo a Dungeons and Dragons, nello specifico alla 3.5, quindi è stato parecchio esaltante immaginarmi una storia e costruirmi un personaggio che potesse entrare in modo realistico in un’ambientazione così diversa da ciò in cui sono abituata com’è Nameless Land. Innanzitutto si tratta di un mondo post-apocalittico e non più medievale, in cui per di più non esiste la magia ma sono la tecnologia e le mutazioni genetiche a determinare il destino dei pochi sopravvissuti all’apocalisse. È in questo contesto che ho iniziato ad immaginarmi Lara, che prende nome e sembianze dalla famosa protagonista di uno dei miei giochi per computer preferito, almeno nella sua versione più recente, ma che al contempo se ne discosta in certi casi brutalmente. La mia Lara infatti è una donna abituata a vivere in un mondo che fa di tutto per ucciderti e come avrete capito se avete già letto il brano sopra, ha imparato presto a sfruttare ogni sua risorsa per muoversi in questo mondo.
Com’era già successo per Sonea, non ho resistito alla tentazione di condividere con voi questo piccolo brano in cui Lara parla di sé, soprattutto perché in fin dei conti, i giochi di ruolo sono tanto vicini al mondo letterario di cui parliamo qui, da poter spesso venir scambiati per suoi figli. Spero comunque che vi faccia piacere leggere qualcosa di diverso, anche perché non mi dispiacerebbe parlarvi più spesso del mondo dei Giochi di Ruolo, una passione che coltivo da tempo e che è entrata a far parte di quella che sono.